Il redditometro e la politica gnè gnè

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Il dibattito politico, negli ultimi giorni, è ruotato attorno al decreto ministeriale “Determinazione sintetica del reddito complessivo delle persone fisiche” del 7 maggio 2024, sospeso poco dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per conflitto di interesse elettorale e addebitato all’incontinenza solitaria e colpevole del viceministro Maurizio Leo.

Gli stentorei proclami bipartisan di liberazione da uno degli strumenti di accertamento dei redditi meno invasivi e vessatori sono stati, per alcuni giorni, la colonna sonora nazionale della campagna per le elezioni europee. Da Conte a Salvini, da Renzi a Tajani sono in molti ad aver provato a staccare una cedola elettorale da quel capitale di incazzature e incomprensioni accumulato da milioni di italiani in decenni di rapporti sleali – o ruffiani o sopraffattori – tra Stato e contribuenti.

Il cosiddetto redditometro ha così guadagnato, per l’ennesima volta, una immeritata fama di vergogna e un ingiustificato titolo di infamia, malgrado le sue caratteristiche siano tali da consentirne un utilizzo tutto sommato residuale, con un target rappresentato da chi teoricamente è molto lontano dall’immagine del contribuente medio: tipicamente, l’evasore totale.

Il primo redditometro – cioè un meccanismo di determinazione sintetica del reddito, sulla base delle spese sostenute dal contribuente e teoricamente non giustificate in base a quanto dichiarato – fu introdotto dall’articolo 38 del dpR  600/1973. Questo meccanismo venne modificato negli anni ’90 e poi stabilizzato nel 2010 dal Governo Berlusconi con l’articolo 22 del decreto legge 78/2010 e la norma primaria, da allora mai più modificata, né abolita ma – vedremo come – dal 2018 temporaneamente sospesa, andò precisandosi e circoscrivendosi ai casi in cui il reddito complessivo accertabile eccedesse di almeno un quinto quello dichiarato e fosse consentito un vero contraddittorio con il contribuente.

In questo quadro a chi subisce l’accertamento, con l’inversione dell’onere della prova caratteristica della giustizia tributaria, fu data la possibilità di dimostrare che le spese contestate fossero state sostenute legalmente, ad esempio con redditi esenti o esclusi dalla formazione della base imponibile.

Il decreto ministeriale di applicazione della nuova norma venne in seguito modificato dal Governo Renzi (dm 16 settembre 2015), recependo un parere del Garante Privacy che aveva giudicato improprio l’utilizzo delle medie ISTAT di consumo familiare nella ricostruzione del reddito dei contribuenti, in quanto da queste medie familiari non era ricavabile, se non con grandi margini di errore, il reddito individuale. Tale parere era già stato recepito e applicato dall’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 6/E/2014, prima dell’emanazione del nuovo decreto.

Nel 2018 il Governo Conte ha gabellato per abrogazione del redditometro la semplice sospensione della sua applicazione (articolo 10 del decreto legge 87/2018), rimandando la nuova disciplina a un nuovo decreto mai adottato. A questo adempimento ha provveduto il viceministro Leo, disciplinandone le modalità applicative con circa sei anni di ritardo, a decorrere dai redditi dell’anno di imposta 2016. Il viceministro Leo si è difeso dalle polemiche affermando di avere adempiuto a un obbligo di legge e di avere introdotto maggiore certezza del diritto. Il resto della maggioranza (escluso il suo partito, FdI) e la gran parte delle opposizioni lo hanno accusato di avere resuscitato un mostro che in realtà non era mai morto, ma era stato congelato nel freezer del sistema fiscale.

La soluzione trovata dalla presidente del Consiglio – buttare la palla avanti, verso il miraggio di un provvedimento chirurgico contro i grandi evasori totali (“nullatenenti che girano col Suv e vanno in vacanza con lo yacht”) – rientra perfettamente nello schema del più classico populismo fiscale, che promette la vendetta dei pochi sui molti, cioè, nella sostanza di “noi” sugli “altri”.

Poco conta che l’evasione endemica in Italia sia tutt’altro che un fenomeno di élite o concentrato su categorie socio-economiche interamente illegali, quando non criminali. E pochissimo conta anche che il redditometro sia uno strumento tutt’altro che universalizzabile e assai poco adatto, proprio per le sue caratteristiche e per quelle dell’evasione fiscale di massa, a consentire veri recuperi di gettito.

Si tenga presente che negli ultimi cinque anni (dal 2013 al 2017 compreso), prima della sospensione del 2018, il gettito recuperato dagli accertamenti sintetici era stato mediamente ogni anno intorno ai 40 milioni, lontanissimo dagli obiettivi programmatici che oscillavano tra i 700 e gli 800 milioni. In tutto questo i procedimenti annui erano stati di poche o pochissime migliaia.

Sul redditometro, dunque, quel che si dice appartiene, per lo più, al repertorio delle verità alternative e parallele, sia sul fronte no-tax che pro-tax: è falsa la sua pericolosità, è sovrastimata la sua utilità, è ridicola la sua rappresentatività di un regime di polizia fiscale.

Il redditometro è invece il perfetto fantoccio o fantasma polemico del teatrino della politica gnè gnè, oltre che la misura precisa della degradazione del dibattito pubblico e del processo democratico. Ed è pure una eloquente dimostrazione di come il voto di scambio non sia più un commercio di utilità, ma di illusioni. (Public Policy)

@CarmeloPalma