La discussione sul presidenzialismo, tra ideologia e ipocrisia

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Più della proposta presidenzialista, che il programma ufficiale della destra sintetizza in un laconico ed equivoco: “Elezione diretta del presidente della Repubblica”, hanno fatto discutere le parole di Silvio Berlusconi che, all’atto di approvazione di una riforma di questo tipo, riterrebbe inevitabili le dimissioni di Sergio Mattarella (nella foto).

Quella innescata dalle parole del Cavaliere è stata una discussione per un verso prematura e per un altro surreale, perché evidentemente un modello presidenziale, a seconda delle sue caratteristiche, non implica solo la sostituzione di un presidente eletto dalle Camere con uno eletto dal popolo, ma una riscrittura più o meno radicale di tutte le norme che attengono alla forma di governo e agli equilibri tra gli organi e i poteri costituzionali.

Al momento non è dato sapere quali siano le caratteristiche del presidenzialismo che la destra ha in testa (la coalizione si è ben guardata dal precisarlo), ma ci sono buone possibilità che, almeno nella formulazione iniziale, esso si avvicini alla proposta avanzata in questa legislatura da Fratelli d’Italia, che avevamo già analizzato e che è un patchwork senza uguali e senza precedenti e utilizza perfino un dispositivo caratteristico dei sistemi parlamentari – la sfiducia costruttiva – per consolidare un assetto non semi, ma super-presidenziale, in cui, a differenza che in Francia, non si potrebbe neppure sfiduciare il Governo formato dal presidente senza formarne un altro, che vedrebbe comunque al vertice lo stesso presidente. Una sorta, quindi, di monarchia parlamentare.

In ogni caso, che si tratti di questa o di altre proposte più classiche e meno avventuristiche, non sarebbe solo l’attuale capo dello Stato ad essere messo fuori gioco dalle nuove regole costituzionali e il problema della transizione da un sistema all’altro dovrebbe essere disciplinato, nei tempi e nelle modalità, nella stessa legge di riforma. C’ha pensato infine – meno male – Giorgia Meloni a offrire un barlume di chiarezza, dicendo che la via più logica sarebbe quella di fare entrare in vigore il nuovo sistema (che, ripetiamo, non riguarda solo il capo dello Stato, ma come minimo anche il Governo e il Parlamento, oltre che il Csm) nella legislatura successiva a quella in cui l’eventuale riforma venisse approvata.

Si tratta certamente di questioni complesse, che è difficile volgarizzare e rendere comprensibili all’opinione pubblica, anche perché nella vulgata politica il presidenzialismo è stato un totem e un tabù, una minaccia e uno spettro, ma non è quasi mai stato oggetto di una discussione razionale. Invocato per soddisfare esigenze di legittimazione politica e evocato per rispondere a istanze di stabilità istituzionale, il presidenzialismo è stato un feticcio ideologico positivo e negativo, che ha polarizzato la discussione, rendendola accesa nei toni, ma opaca nei contenuti fondamentali.

In realtà il presidenzialismo in sé non è né il male, né il bene, ma, come molte proposte politiche, un contenuto che, a seconda delle circostanze e delle contingenze, può risultare più o meno valido o dannoso. Ha portato La Francia fuori dalla paralisi e dal caos della IV Repubblica, ma potrebbe affogare l’Italia nelle sabbie mobili del bipopulismo.

Ancora oggi, per la generalità dei cittadini il sistema presidenziale è – errore! – quello in cui il capo dello Stato è scelto direttamente dagli elettori, anche se da questa elezione diretta possono discendere conseguenze del tutto diverse. Il presidente federale austriaco è eletto dal popolo ma ha funzioni puramente rappresentative e cerimoniali, non diverse da quelle del suo omologo tedesco, eletto dai membri del Bundestag e dai delegati dei 16 Länder e decisamente inferiori a quelle del capo dello Stato italiano, che è eletto dal Parlamento e che però è in grado di condizionare in modo determinante l’esercizio del potere legislativo e esecutivo.

D’altra parte esistono nei sistemi parlamentari formule – come il premierato e il cancellierato – che rafforzano in modo sostanziale il ruolo del capo dell’Esecutivo, senza passare da meccanismi di elezione diretta e senza farlo coincidere con la figura del capo dello Stato. Non è vero che l’elezione a suffragio universale di per sé accresce il potere dell’eletto, come non è vero che la rappresentatività diretta di un organo di governo discenda dall’investitura popolare diretta.

Secondo il più classico schema populista, il presidenzialismo nel discorso pubblico è a immagine e somiglianza dei sogni dei suoi sostenitori e degli incubi dei suoi avversari. Per i favorevoli diventerebbe il modo per stabilire un canale di comunicazione diretta e un sistema di “conversione” efficiente tra la volontà del popolo e l’azione delle istituzioni – cosa che diversi presidenzialismi sudamericani si incaricano da decenni di smentire – mentre per i contrari il presidenzialismo non sarebbe nient’altro che una forma surrettizia di autocrazia e rappresenterebbe in sé una violazione irrimediabile del principio della divisione dei poteri e della democrazia parlamentare.

Per dare a questo pregiudizio un’evidenza storica chiamano in causa l’Ungheria di Orban, che però non è affatto una repubblica presidenziale e che sta costruendo passo passo la sua “democrazia illiberale” nel contesto di un sistema parlamentare, ma con un meccanismo elettorale fortemente maggioritario.

Se nelle fila della destra italiana il presidenzialismo è sempre stato un cavallo di battaglia retorico, ma mai davvero un progetto di riforma imprescindibile (infatti in Italia non c’è il presidenzialismo), a sinistra il rapporto con questo tema è stato più controverso, ma a parte le fazioni più radicali, non è praticamente esistito leader della sinistra ulivista, unionista e democratica che non si sia schierato, in un certa fase, a favore del sistema che, a dispetto del nome, è il più presidenziale di tutti i presidenzialismi, quello francese, poiché a differenza di quello statunitense relega funzionalmente il Parlamento in un ruolo subordinato e servente e lo priva, a differenza della Camera dei rappresentanti e del Senato Usa, di un’effettiva e separata autonomia istituzionale dal potere presidenziale.

Dal D’Alema presidente della bicamerale ormai un quarto di secolo fa, a Prodi e a Veltroni, solo per citare i più famosi, il sistema francese è stato immaginato e proposto a sinistra come soluzione per riequilibrare al centro la dialettica bipolare. E c’era della razionalità, non dell’opportunismo, in quell’idea cui si sono votati in seguito innumerevoli esponenti della sinistra riformista.

Quindi oggi suona tanto ipocrita quanto demagogica l’accusa di Enrico Letta, che nell’ultima direzione del Pd ha equiparato sic et simpliciter il sostegno al sistema francese alle fantasie post-fasciste (“Ho fatto una ricerca storica. Il progenitore del semipresidenzialismo che oggi la destra propugna a partire da Giorgia Meloni e Berlusconi è il Movimento sociale italiano”). Anche escludendo i casi citati più recenti (D’Alema, Veltroni e Prodi), basterebbe pensare che a proporre l’elezione diretta del capo dello Stato e il sistema semipresidenziale, come rimedio agli eccessi disfunzionali della partitocrazia, è stato, alla fine della prima Repubblica, prima di Giorgio Almirante, anche l’allora deputato socialista, poi deputato e senatore ulivista e attuale presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato.

A suscitare dubbi legittimi e fondati sull’utilità di una riforma semipresidenziale oggi non è l’asserita natura intrinsecamente autoritaria di questo sistema – tesi che non può essere sostenuta da chi abbia salutato due volte come una benedizione della storia l’elezione di Emmanuel Macron, personaggio e fenomeno politico letteralmente generato dalle dinamiche del semipresidenzialismo francese – ma i suoi esiti in un sistema politico in cui, a differenza di quanto succede in Francia, il doppio turno e il ballottaggio presidenziale potrebbe non servire ad ancorare a una logica mainstream, in senso europeo e atlantico, la dialettica politica, ma a approfondire le spaccature, l’antagonismo e la deriva estremistica dei principali partiti di sistema.

In Italia, al ballottaggio sarebbero probabilmente finiti una Marine Le Pen e un Jean-Luc Melenchon, senza un Macron, con esiti rovinosi. Ma c’entra poco o niente la natura “oggettiva” del sistema; c’entrano al contrario le conseguenze dei suoi incroci con le caratteristiche “soggettive” del sistema politico italiano. Le stesse che avrebbero dovuto sconsigliare di preservare, in nome di un bipolarismo dogmatico, norme elettorali maggioritarie che portano irrimediabilmente al bipopulismo politico e alla democrazia del “voto contro”, a differenza di quelle proporzionali – bloccate dal patto di fatto dichiarato tra Pd e FdI – che avrebbero portato alle prossime elezioni politiche a prevenire il rischio del “cappotto” e del rovescio di sistema.

Infatti, alla fine, la verità più dolorosa è proprio questa: non è il presidenzialismo a essere brutto, sporco e cattivo, ma sarebbe la democrazia italiana a renderlo così. Per la stessa ragione per cui il presidenzialismo non è in sé brutto quando elegge Donald Trump e buono quando fa prevalere Joe Biden. Una democrazia deve essere abbastanza solida e stabile per permettersi il presidenzialismo. Il presidenzialismo è un sistema troppo forte per democrazie troppo deboli. Quella italiana di certo lo è, molte di quelle occidentali – compresa quella statunitense – stanno già mostrando molti segni della stessa fragilità. (Public Policy)

@carmelopalma