Lo Spillo

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ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – La scuola italiana non se la passa bene. Anzi, sta proprio a pezzi. Però è strano rilevare come ogni proposta di riforma, piccola o grande che sia, provenga da destra, dal centro o da sinistra, generi immediatamente scioperi e proteste, come per riflesso automatico, come se l’unica riforma giusta in questo Paese sia sempre quella che non si fa.

Il ddl su #labuonascuola è in Commissione Cultura alla Camera, con 2100 emendamenti da esaminare, un percorso parlamentare ancora agli albori e la possibilità di numerose modifiche ma, come se tutto fosse già deciso, sono partite le proteste. Sfociate in manifestazioni evidentemente organizzate ben prima che uscisse il testo definitivo del decreto, nello stesso giorno in cui erano programmati i test per valutare la preparazione degli studenti, in sette città diverse sono scesi in piazza insegnanti, qualche alunno e alcuni universitari (che non si capisce che abbiano a che fare con la scuolaà) contro “la fine della scuola pubblica”. Più che il merito delle proposte, sembra che l’oggetto delle critiche sia la sola idea di cambiare qualcosa nel sistema scolastico.

Altrimenti non si spiega lo slogan “lottare contro la precarietà”, quando tra le misure previste c’è proprio l’assunzione a tempo indeterminato di 100 mila precari (scelta che mi vede contrario) a partire già da settembre. Aspre critiche, poi, sono riservate al nuovo ruolo del preside, che diventerebbe uno “sceriffo” in grado di fare il bello e il cattivo tempo. Per carità, ogni cosa è perfettibile, ma l’errore esiziale della nostra scuola è stato rendere immuni da ogni giudizio gli insegnanti che, a prescindere dalla qualità del loro lavoro, per decenni hanno fatto carriera sempre e solo per anzianità. Così premiando i poco meritevoli e demotivando quelli bravi e impegnati. Una reputazione tacita e non ufficiale che ha livellato verso il basso la qualità media della docenza, provocando la fuga verso lidi migliori (e spesso privati) di famiglie con maggiori possibilità economiche. Eppure tutti, dalle famiglie ai professori, passando per gli alunni, sanno sempre chi sono i docenti più bravi e quelli con cui non si studia una pagina.

Ora, alcune norme potranno essere migliorate – come già avvenuto con la previsione secondo cui i presidi potranno scegliere i professori in graduatoria e non a chiamata diretta – ma è indispensabile creare dei metodi di valutazione della didattica, altrimenti si resta impantanati nel “sei” politico e nella mediocrità come regola, con le eccellenze che emergono solo per l’impegno e il sacrificio spontaneo dei singoli. Mentre, invece, la meritocrazia deve essere elevata a sistema. Un docente orgoglioso del proprio lavoro non teme la valutazione, la desidera, sperando che da essa dipenda almeno una parte del suo stipendio. Ad essere contrari, infatti, più che i singoli, sono i sindacati, che radicano il proprio potere nella massa indefinita.

E’ evidente, come dice il ministro Giannini, che questo è uno “sciopero politico”, sui cui qualcuno sta giocando in vista delle elezioni regionali. Anche perché, mentre la riforma è ancora piena di elementi da definire, è sicuro lo stanziamento di risorse per l’edilizia scolastica, l’assenza di tagli nei trasferimenti (sempre che la Ragioneria dello Stato confermi le coperture), l’attenzione agli open data ed al progetto di digitalizzazione.

Nelle scuole italiane educhiamo i ragazzi alla mediocrità, senza poter mai spostare nemmeno una lavagna. Gli alunni copiano, gli insegnanti suggeriscono le risposte ai test Invalsi, i genitori difendono i figli ad ogni costo e i sindacati dicono no a tutto. Poi non ci lamentiamo se registriamo il triste record tra i paesi sviluppati, per cui i giovani sono tre volte più disoccupati degli anziani. Se per una riforma di dettaglio e priva di una visione complessiva si scatena questo l’inferno di fischietti e striscioni, prepariamoci alla bocciatura perenne.(Public Policy)

@ecisnetto