di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Qualcosa si muove nella destra anglosassone che ruota attorno al conservatorismo dei podcast? A quella “maschiosfera” in cui spadroneggiano i bro-caster capeggiati da Joe Rogan? Parrebbe. Ma ci voleva l’autorevolezza di Douglas Murray, britannico, conservatore, recente autore di “On Democracies and Death Cults: Israel, Hamas and the Future of the West”, per dire quello che finora era indicibile: perché nel Roganverso si dà spazio a tutti per straparlare, anche se non soprattutto a chi non ha una competenza specifica per intervenire sul dato argomento?
Murray lo ha detto apertamente in faccia a Rogan durante una recente puntata del suo popolarissimo podcast, “The Joe Rogan Experience”. Il giornalista britannico, ha scritto The Atlantic, “ha ragione riguardo alle carenze di Rogan nella scelta degli ospiti. Negli ultimi anni, Rogan ha invitato una schiera di eccentrici che si considerano dei Galileo solitari che si oppongono alle grandi aziende farmaceutiche o al ‘deep state’. Tuttavia, la sua influenza, popolarità e potere di patrocinio sono così grandi che pochi ospiti vogliono sfidarlo; altri potrebbero ragionevolmente sostenere che Rogan riceve già abbastanza critiche dal mainstream liberale”.
Fin qui nessuno a destra aveva detto a JR quello che era necessario dire, permettendosi persino il lusso di criticare la falange dei podcaster vicini – anche solo culturalmente – al trumpismo. Donald Trump ha un consistente debito di riconoscenza nei confronti dei podcaster come Rogan, perché gli hanno permesso di affermarsi in un prezioso e specifico settore dell’elettorato che ascolta regolarmente le loro trasmissioni. Se n’è occupato anche il Financial Times. Durante l’ultima campagna elettorale, Trump ha saltato la trasmissione della CBS, “60 Minutes”, rompendo una tradizione vecchia di diverse decadi. “Questo gruppo, una costellazione di influencer e comedian che ruotano attorno alla superstar Joe Rogan è stato soprannominato ‘maschiosfera’ per la sua presa sui giovani maschi statunitensi”.
In un’epoca di sfiducia dell’elettorato nei confronti dei media tradizionali, questi podcaster hanno offerto una alternativa nel solco del Maga. Dan Bongino è uno di loro ed è diventato, per questo, vicedirettore dell’FBI. È uno di quei podcaster che hanno regalato a Trump un consenso strutturato tra gli elettori under 30. “Più della metà degli uomini sotto i 30 anni ha sostenuto Trump, secondo AP VoteCast, un sondaggio condotto su oltre 120.000 elettori, mentre il democratico Joe Biden aveva ottenuto una quota simile di questo gruppo quattro anni prima”, ha scritto Associated Press: “Quest’anno gli uomini bianchi sotto i 30 anni erano decisamente a favore di Trump – circa 6 su 10 hanno votato per Trump – mentre i giovani latini erano divisi tra i due candidati. La maggior parte dei neri sotto i 30 anni ha sostenuto la democratica Kamala Harris, ma circa un terzo ha appoggiato Trump”.
Il neo presidente degli Stati Uniti ha dunque potuto contare nella sua carriera politica su una radicata sfiducia nel sistema tradizionale giornalistico. “Nel mainstream, i bro-caster possono essere visti come i successori degli shock-jock come Howard Stern. La loro irriverenza e le parolacce che spingono oltre i limiti piacevano alla Generazione X perché erano avvolte da uno strato di distanza ironica”, ha scritto il Financial Times a fine dicembre: “Poi il vento è cambiato. L’anarchia artificiale delle talk radio è stata sostituita dall’autenticità artificiale degli influencer. Non c’è traccia di ironia nel gergo psicologico di auto-aiuto di Jordan Peterson, o nel pugno-contro-pugno tra dirigenti di Steven Bartlett, o nel machismo dell’ex Navy Seal Shawn Ryan. Tutti vogliono essere presi sul serio come ricercatori della verità e allo stesso tempo essere ammirati come caricature della mascolinità. Il bro-casting è ciò che accade quando un pubblico vuole risposte ma ne ha abbastanza degli esperti”. Con i bro-caster è tutto più semplice, anche per Trump quando va ospite da loro, perché c’è una stima reciproca. Una stima che non può esserci con i media tradizionali.
D’altronde secondo il sociologo Manuel Castells, “i media non sono il Quarto Potere. Sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere. I media costituiscono lo spazio in cui le relazioni di potere vengono decise tra attori politici e sociali in competizione”. Ma Trump non vuole affatto che ci sia una competizione, perché ai suoi occhi ha già vinto. I bro-caster sono semplicemente suoi compari. Gente con cui farsi una chiacchierata da spogliatoio. Murray ha avuto il coraggio e il merito di dire che il podcaster è nudo. Anche quello che si trincera dietro la frase “Ehi, ma io sto soltanto facendo delle domande”.
Ma è nella selezione che vive il mestiere dell’informazione, specie oggi con tutta questa sovrabbondanza di stimoli e dati. Altrimenti ci si presta più o meno volontariamente alla disinformazione (che è cosa diversa dalla misinformazione). Che poi è l’obiettivo di questi movimenti politico-culturali, come spiega Lee McIntyre in “Disinformazione” (Utet): lo scopo “non è persuadere, bensì confondere e disorientare il proprio avversario al punto tale da farlo diventare cinico su quale sia il contenuto con cui controbattere”. (Public Policy)
@davidallegranti