di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – La riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata in prima deliberazione dalla Camera e dal Senato, non ha subito nell’iter parlamentare alcuna modifica rispetto al testo licenziato dal Consiglio dei ministri. È una “prima volta” per le leggi di revisione costituzionale, che le opposizioni hanno denunciato come un oltraggio alla centralità delle camere e la maggioranza giustificato con l’impossibilità di trovare compromessi soddisfacenti di fronte a impostazioni radicalmente contrarie. Dal punto di vista tecnico, si conferma in ogni caso l’impressione suscitata poco più di un anno fa dalla proposta del Governo, leggendone il contenuto in parallelo a quello del disegno di legge di iniziativa popolare, presentato qualche anno prima dall’Unione delle Camere Penali. In grande sintesi e concentrandosi sull’essenziale, il disegno di legge Meloni-Nordio ha una cosa in più, molto rilevante, e due cose in meno, tutt’altro che insignificanti.
La cosa in più è rappresentata dall’istituzione di un’Alta Corte cui spetta la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati requirenti e giudicanti, che viene sottratta ai due distinti organi di autogoverno, cui spettano solo le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni. Che la riforma non solo separi il CSM dei giudici da quello dei pm, ma separi anche la funzione “esecutiva” da quella “giudiziaria” nel sistema di autogoverno della magistratura deve considerarsi un corollario coerente del disegno riformatore dichiarato dall’esecutivo e un oggettivo passo avanti per inibire i meccanismi di autotutela corporativa della categoria, che il CSM fino ad oggi ha indubbiamente palesato sia nella valutazioni di professionalità, positive nel 99% dei casi, sia nei procedimenti disciplinari, che in meno di un caso su dieci si concludono con una sanzione effettiva dal punto di vista economico o funzionale (dalla perdita dell’anzianità alla sospensione).
Peraltro, per la corte disciplinare la riforma costituzionale non rimanda i meccanismi di composizione alla legge ordinaria e stabilisce come la componente togata debba essere sorteggiata, prevedendo che sei magistrati giudicanti e tre requirenti siano “estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”.
Sul punto, la legge di riforma ha una chiarezza che invece manca – come vedremo – nell’estrazione della componente togata dei due CSM. Se l’Alta Corte disciplinare è “il più” della proposta dell’esecutivo rispetto a quella originaria dell’Unione delle Camere Penali, “i due meno” sono, in primo luogo, l’assenza di una effettiva costituzionalizzazione del principio dei concorsi separati per pm e giudici e quindi del divieto di passaggio dalla carriera requirente a quella giudicante e, in secondo luogo, il mancato intervento sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che, a fronte di un numero di notiziae criminis esorbitante le risorse disponibili da parte delle procure territorialmente competenti, oggi si traduce in un principio di discrezionalità burocratica nelle selezione delle indagini da avviare, non affidata ai titolari della politica criminale, cioè ai legislatori, ma a ciascun ufficio della pubblica accusa.
La proposta approvata in prima deliberazione – a questo punto la sola che potrà vedere la luce in questa legislatura – conserva dunque consistenti margini di ambiguità proprio sui punti centrali di quel cambiamento, che i promotori sostengono che essa propizierebbe. Se la riforma fosse approvata in questa forma anche dal referendum confermativo, posto che il referendum si tenga nel corso della legislatura (i “se”, come si vede, abbondano), la maggioranza metterebbe presumibilmente mano, stando agli impegni, a una legge sull’ordinamento giudiziario che imporrebbe una vera separazione delle carriere, a partire dal principio dei concorsi separati per giudici e pm. In ogni caso, se questa fosse davvero stata la volontà inequivoca della maggioranza, non si capisce per quale ragione non sia stata cristallizzata, come sarebbe stato opportuno, in una norma costituzionale, anche per evitare che ad ogni cambio di maggioranza possa cambiare anche l’architettura dell’ordinamento giudiziario.
In ogni caso, il nuovo articolo 104 della Costituzione, così come riformulato dalla proposta governativa (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”), sarebbe perfettamente compatibile anche con la disciplina oggi prevista dalla riforma Cartabia, che non prevede concorsi separati per giudici e pm e autorizza un numero limitato di passaggi – in tutto due, nel corso dell’intera carriera dei magistrati – tra l’una e l’altra funzione.
Si potrebbe, con buone ragioni, sostenere che in realtà la separazione delle carriere dei magistrati è già nei fatti; che non occorre blindarla con norme costituzionali, visto che in cinque anni, come ha certificato in un’audizione alla Camera la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano, il passaggio tra funzioni requirenti e giudicanti ha riguardato lo 0,8% dei pm e lo 0,2% dei giudici italiani; e che è molto più importante la riforma realizzata attraverso lo sdoppiamento dei CSM e la selezione casuale dei componenti degli organi di autogoverno di pm e giudici. Ma anche su questo punto il testo della riforma conserva un’inaspettata ambiguità. I due terzi di componenti di derivazione togata (dove la proposta delle Camere penali ne prevedeva solo la metà) accentuano i rischi di autoreferenzialità della corporazione giudiziaria e non si giustificano se non come smentita della volontà di attentare all’autonomia della magistratura.
A destare sospetto è però soprattutto l’assenza di qualunque cornice normativa al principio dell’estrazione dei componenti togati. Prevedere infatti siano “estratti a sorte… nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge”, significa dire tutto e niente. Se, ad esempio, l’estrazione avvenisse tra tutti i magistrati italiani con una certa anzianità di servizio, sarebbe una vera lotteria e il risultato sarebbe realmente casuale. Se invece l’estrazione avvenisse in una platea ristretta di candidati, selezionati per via democratica da un corpo elettorale composto dagli stessi magistrati, il meccanismo del sorteggio sarebbe dirottato verso una logica sostanzialmente correntizia, che, fatta uscire dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Se poi l’estrazione avvenisse tra i soli membri del gotha dell’ordine giudiziario (presidenti di tribunale, di corte d’appello e di sezione della Cassazione, procuratori della Repubblica e generali…), gli organi di autogoverno degenererebbero nell’auto-perpetuazione di un potere oligarchico.
È di per sé discutibile – anche se allo stato forse inevitabile – ritenere che il sorteggio dei componenti di un organo costituzionale costituisca la soluzione taumaturgica a quell’intrico di collateralismi e conflitti di interesse che hanno diviso e legato, opposto e compromesso politica e magistratura dall’inizio dell’era repubblicana. Però è decisamente peggio presentare come una soluzione definitiva una proposta che deve essere ancora scritta e che rischia di essere scritta nel segreto tra parti che pubblicamente si combattono all’arma bianca. (Public Policy)
@carmelopalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato





