di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Mentre la cronaca giornalistica e il dibattito pubblico erano affaccendati sul caso di una presunta violenza sessuale, che, coinvolgendo in veste di indagato il figlio della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, diventava per ciò stesso non solo la più fresca, ma la più succulenta portata del menù dell’informazione politico-giudiziaria, il presidente dell’Unione delle Camere penali, l’avvocato Giandomenico Caiazza scriveva un articolo su Il Riformista a proposito del processo in corso – anche in questo caso per violenza sessuale – che vede tra gli imputati il figlio di Beppe Grillo. Un caso in cui la scarsa attenzione giornalistica fotografa perfettamente il downgrade del garante del M5s tra i potenti della politica italiana.
La notizia che commentava Caiazza non riguardava però le normali (normali?) anticipazioni degli atti di indagine, a partire da quegli spettacolari virgolettati di conversazioni o corrispondenze digitali, che sui giornali, per legge, non dovrebbero neppure finire e a cui la morbosità scandalistica e il sussiego moralistico, che in Italia sono da decenni il surrogato tossico del rigore civile, riconoscono volentieri sostanza di materiale politico, a misura dell’infamia e del discredito che possono procurare ad avversari e nemici. Tutti hanno ricordato, infatti, in questi giorni, come il partito di La Russa e la sua leader Giorgia Meloni attaccarono ad alzo zero Grillo, quando questi, come proprio la Russa avrebbe fatto qualche tempo dopo, si esibì in una difesa suicida ed incongrua del proprio pargolo, persuaso di giovargli e di schermarne il bersaglio con la propria “potenza”.
La notizia commentata dal presidente delle Camere penali italiane riguardava però altro: il tentativo di far salvo il processo in corso a carico di Ciro Grillo e degli altri imputati, senza la riassunzione di prove e testimonianze, malgrado l’abbandono di un giudice del collegio, trasferito ad altra sede, e malgrado la legge sul punto sia chiarissima nello stabilire che “se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva” (articolo 495, comma 4-ter del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 30, comma 1, lett. f) del decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022).
In questo caso, di ciò che è stato fino ad oggi il processo non esiste alcuna documentazione audiovisiva. La notizia di ieri è che la corte ha respinto una richiesta di sospensione del processo formulata dal difensore di uno degli imputati, in attesa di una decisione sulla composizione definitiva del collegio giudicante, visto che il tribunale di Tempio Pausania ha chiesto al Csm che il giudice trasferito rimanga applicato a tutti i processi in corso in cui risulta ancora coinvolto nella vecchia sede di lavoro. Questo scontro avrà sicuramente un seguito, al momento non prevedibile, ma è la notizia in sé, non solo il suo merito giuridico, a rendere evidenti i rischi che incombono sui processi che trattano di reati di particolare allarme e riprovazione sociale e incrociano fenomeni di eccezionale gravità e di dimostrata diffusione, come quello delle molestie e violenze sessuali. Il diritto degli imputati – di qualunque imputato – a essere giudicati da un giudice che ha presenziato alle udienze, ascoltato le testimonianze e assistito al dibattimento, e non ne ha semplicemente letto ex post i verbali costituisce, in teoria, il primo diritto di difesa, ma è considerato politicamente recessivo non solo ad esigenze di economia processuale (i processi che si allungano, i costi che lievitano, le prescrizioni che si avvicinano) ma anche a necessità di vera e propria legittimazione politica dell’azione dei giudici (l’urgenza di rispondere all’attesa dell’opinione pubblica e di dimostrare un’inequivoca militanza civile nella lotta contro “il male”).
Questa è la ragione per cui la giurisprudenza della Cassazione ha potuto sabotare con un insieme di eccezioni il principio stabilito a chiarissime lettere dall’articolo 525, comma 2, del codice di procedura penale: “Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. Non perché non fosse chiara la norma, ma perché apparivano prioritarie e più urgenti altre esigenze, diverse e superiori alla tutela dei diritti dell’imputato e perfino al rispetto della legge. Questa è anche la ragione per cui il decreto 150/2022 (cosiddetto Cartabia) alla fine ha dovuto almeno concedere che il nuovo giudice, subentrato al precedente, potesse farsi un’idea del processo non proprio leggendo i verbali del dibattimento, ma almeno riguardandoselo come se fosse una serie tv (il giudice di Tempio Pausania non ha però neppure questa possibilità e il processo dovrebbe per legge ricominciare da capo).
Il fatto è che i principi del processo penale – a partire da quello di immediatezza nella acquisizione e valutazione delle prove da parte dei giudici – sono ormai considerati escamotage procedurali, non sostanza e crisma di una civiltà giuridica che distingue (anzi oppone) il processo penale all’ordalia. La relativizzazione, lo svuotamento o la cancellazione dei diritti degli imputati nei processi in cui l’intransigenza contro un fenomeno odioso autorizza agli occhi di milioni di italiani il ricorso a misure eccezionali e sommarie è ormai molto più di un rischio. È un vero senso comune politico-giudiziario che nei processi per mafia, corruzione e droga trova da anni dimostrazioni e conferme a dire poco inquietanti. E tutto lascia presagire che le violenze sessuali siano destinate a rientrare nella casistica dei “crimini d’autore”, dove la difficoltà, a volte oggettivamente insuperabile, di giungere a prove di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, viene rimediata dalla facilità con cui la prova del reato viene fatta discendere direttamente dall’identità o dalla personalità del reo. Se però è sacrosanto scongiurare la vittimizzazione secondaria delle donne che denunciano violenze e che sono accusate di averle istigate o provocate, dovrebbe essere altrettanto doveroso evitare la vittimizzazione, per così dire, primaria degli indagati per reati sessuali, che sono preventivamente condannati, prima che una sentenza li riconosca colpevoli, non solo da un infamante sospetto, ma perfino dall’accusa di protestare la propria innocenza e così di oltraggiare la persona della (presunta) vittima. Per citare e ribaltare il fortunato stilema del campione della giustizia combattente, Roberto Scarpinato, bisognerebbe non solo pronunciare ma anche convenire su una “verità indicibile”.
Che la giustizia penale non è uno strumento di lotta e di riabilitazione sociale, né di riforma del costume civile e che, al contrario, ci sono poche illusioni meno totalitarie di una giustizia che edifica il popolo con sentenze esemplari e segnaletiche di valori condivisi e che, tra i sospetti reprobi, ne punisce e sacrifica cento per educarne e salvarne mille, centomila o un milione. I retaggi di un maschilismo patriarcale e protervo non sono né combattuti, né vinti dagli abusi di una giustizia vendicativamente paternalistica, che rimette al posto loro buoni e cattivi secondo categorie generali e che appioppa sbrigativamente al maschilista la patente del violentatore, come allo zingaro, ai drogati e ai derelitti quella di ladri e spacciatori. Giuliano Ferrara in un articolo su Il Foglio ha tracciato un parallelo pertinente sui rischi che una simile campagna di salute morale pubblica porti agli abusi perpetrati contro molti preti presunti pedofili, o per meglio dire molestatori e violentatori, poi risultati clamorosamente innocenti (ad esempio il cardinale Pell, che ebbe la fortuna di essere assolto prima di morire). È un parallelo pertinente che però vale anche al contrario.
Se hanno avuto gioco facile e ottima stampa molte accuse denigratorie e ricattatorie contro esponenti del clero del tutto innocenti è perché con il fenomeno in sé quella società mondana tutt’altra che perfetta, che è la Chiesa cattolica, si è misurata per decenni (e forse per secoli) nascondendo sotto il tappeto della carità e del potere ecclesiastici un fenomeno tanto diffuso da diventare normale, e tanto normale da diventare indiscutibile. Allo stesso modo, bisogna onestamente ammettere che la principale legittimazione di quella sorta di piattaforma Rousseau planetaria, che vorrebbe depurare la lingua e igienizzare le relazioni umane dalle differenze di genere e restituire il mondo a una libertà in qualche modo “originaria” di identità sessuali reversibili e fai-da-te, emancipate dal dominio del maschio cisgender, sono certamente la conseguenza, se non il prodotto della circostanza, tutt’altro che fortunata, che la bandiera del free-speech anti-bigottistico sia finito nelle mani di gente come Trump, o, più mediocremente, alle nostre latitudini, di personaggi La Russa (senior). I consigli dei guardiani del correttismo woke diventano così semplicemente l’altra faccia della medaglia (e del problema) della fascisteria maschilistica e proterva dei banditori dei valori tradizionali e della famiglia “naturale” (storicamente un’invenzione disonesta, praticamente una galera immonda). Simul stabunt, simul cadent.
@carmelopalma