#Stradeblog // La spesa pubblica degli enti locali: un po’ di chiarezza

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ROMA (Public Policy – Stradeonline.it) – di Thomas Manfredi – Come ogni anno, nel periodo di definizione della manovra economica del Governo, comincia la consueta lotta di numeri, di rimpalli di responsabilità, fra amministrazioni dello Stato.

Le Regioni sembrano sul piede di guerra e i Comuni sono preoccupati dell’abolizione delle tasse sulla casa, soprattutto dato il loro impatto sul grado di autonomia finanziaria.

Mettere un po’ di ordine fra i mille numeri presentati all’opinione pubblica è perciò necessario per imbastire una discussione basata su evidenze, e non, come spesso accade, impressioni.

I dati di contabilità pubblica dell’Istat, disponibili a partire dal 1995, ovvero ben prima del processo di devoluzione di materie e competenze crescenti agli enti locali, mostrano in modo inequivocabile il cambiamento strutturale nell’allocazione della spesa e del carico fiscale fra amministrazioni centrali ed enti locali.

Guardando l’andamento della spesa reale, deflazionata per il deflatore dei consumi della pubblica amministrazione, per i vari livelli di governo, si nota come, l’amministrazione centrale e i Comuni stiano, in pratica, spendendo le stesse risorse da quasi venti anni.

La cura da cavallo è stata fatta soprattutto tramite blocchi della contrattazione e delle assunzioni, che però hanno la sgradita controindicazione di deteriorare la qualità e la motivazione, già prima non a livelli stratosferici, della gran parte del personale.

Dal canto loro, le Regioni hanno continuato ad aumentare le loro spese in modo costante a partire dal 2000, a un tasso vicino al 2% reale annuo, mentre le Province, dopo un’esplosione di spesa negli anni berlusconiani, sono state drasticamente ridimensionate, sebbene le loro competenze e il personale siano stati recentemente riassegnati alle Regioni stesse.

La dinamica di spesa degli enti di previdenza ha iniziato a impennarsi dal 2006 in avanti, ed è, ad oggi, il capitolo di spesa col più alto tasso di crescita. Anche qui, non buone notizie, vista la reticenza del Governo nel riformare nuovamente le pensioni, almeno per l’anno in corso.

Se osserviamo l’andamento dei trasferimenti in percentuale del totale delle entrate per gli enti periferici, dal 2000 in avanti, da quando cioè si mise in moto il forte decentramento voluto dal governo di centrosinistra dell’epoca, si nota come il grado di autonomia finanziaria è andato aumentando in modo spettacolare per i Comuni, soprattutto nel periodo di lunga crisi, mentre le Regioni hanno conservato una quota di trasferimenti dal centro sostanzialmente costante.

Poche ragioni di lamentarsi per le richieste di morigeratezza provenute dal Governo? A questo va, però, aggiunto il fatto che sono i cittadini ad aver vissuto sulla loro pelle l’aumento sensibile della pressione fiscale locale che si è accompagnato a tale trasformazione nell’allocazione della spesa.

La fase iniziale del processo sia stata accompagnata da un aumento considerevole dei tributi, soprattutto regionali. Nel 2008, agli albori della crisi, la somma totale dei tributi propri nei vari livelli di governo era superiore ai 100 miliardi di euro.

L’andamento dal 2008 è però sfavorevole alle Regioni, i cui tributi propri, più sbilanciati verso basi imponibili pro-cicliche, sotto i colpi della crisi hanno sperimentato una flessione media annuale del 2%, mentre i Comuni, grazie soprattutto all’attribuzione della corposa Imu entrata in vigore col primo governo Monti, hanno saputo fare fronte alle loro spese grazie a un aumento considerevole delle entrate tributarie.

L’insegnamento da trarre risiede nella constatazione che riforme sostanziose come quelle avvenute alla fine degli anni 2000 hanno impatti nel lungo termine, e che questi vanno monitorati.

La risposta italiana di una maggiore decentralizzazione della spesa, unito al problema atavico di spese crescenti nel campo previdenziale, pone gravi problemi di governance in assenza di coordinamento sulle politiche di spesa.

Lo scaricabarile continuo fra diversi livelli di governo non aiuta di certo il dibattito, che è spesso concentrato su rappresentazioni della realtà utili solo a aumentare il potere negoziale di chi – di volta in volta – si lamenta dei tagli di spesa.

Dietro ogni manovra, anno dopo anno, come i dati presentati hanno ben mostrato, l’aggregato totale, spesso indistinto, chiamato spesa pubblica va incontro a sostanziali cambiamenti strutturali.

L’opacità del dibattito spesso non permette al cittadino elettore di comprendere appieno la portata delle scelte di politica economica. (Public Policy – Stradeonline.it)

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