Tra fedi identitarie e “ragion pratica”, alla ricerca di un nuovo ordine internazionale

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di Enzo Papi*

ROMA (Public Policy) – Gli ultimi 20 anni hanno visto maturare profondi cambiamenti nei rapporti geopolitici globali, che trovano origine in due fattori principali: la fine delle ideologie universali come fattore di aggregazione politica; l’avvento della tecnologia digitale.

La storia del ‘900 ha visto il confronto tra due grandi ideologie di valenza universale. Quella marxista, che vede nell’avvento di una società senza classi la fine dei confronti tra popoli, perché ogni guerra altro non è che una forma di confronto di interessi tra capitalisti, di cui la nazione “è una sovrastruttura”, e quella liberale, che vede nell’uomo libero la premessa etica da cui elaborare i valori dell’esistenza e la fonte della creatività da cui nasce la ricchezza delle comunità.

Da un’eresia del marxismo, che ha privilegiato gli interessi della comunità “chiusa” nei miti della “nazione” o della “razza” su quella dei lavoratori del mondo,  è nato il nazional-populismo, nelle versioni del fascismo  e del nazismo, che ha militarizzato i populismi e innescato, in Europa  il confronto militare tra fascismi, democrazie e comunismo, poi divenuto conflitto generale con la Seconda guerra mondiale. 

Il dopoguerra ha lasciato sul campo un’Europa in macerie e due grandi sopravvissuti, l’uno con una costituzione che “sacralizza” l’individuo, dotato di una preponderante forza economica-militare (gli Stati Uniti) e l’altro condotto da una casta di sacerdoti della “chiesa marxista-leninista” (l’Unione sovietica), dotato di una grande capacità militare e votato al proselitismo verso altri popoli da convertire alla sua fede.

Fino al 1990 la Storia ci ha raccontato principalmente gli eventi di questo lungo confronto combattuto a suon di investimenti in nuove armi sempre più letali e distruttive e alla ricerca di nuovi equilibri sulle frontiere, che hanno portato a guerre locali, con gli Stati Uniti che hanno cercato di indebolire il nemico sovietico anche favorendo il distacco della pragmatica “chiesa marxista” cinese da quella russa. Evento che porterà grandi conseguenze nel nostro presente.

La Guerra fredda che aveva vincolato le economie a culture politiche omogenee, si è chiusa nel 1990 con la cacciata dei sacerdoti comunisti dal trono imperiale russo, ereditato da una confusa “democrazia imperiale” che si è poi assestata in una autocrazia oligarco-populista, ancora in fase di stabilizzazione definitiva. Nel contempo il regime comunista cinese – protagonista con il “socialismo con caratteristiche cinesi” varato da Deng Xiao Ping di una “eresia capitalista” che l’ha resa compatibile con la sua millenaria eredità imperial-confuciana – ha aperto la sfruttamento della sua immensa, disciplinata mano d’opera di facile professionalizzazione agli investimenti dei capitali occidentali che l’hanno irrorata di tecnologie, avviando un boom economico che l’ha condotta, in 30 anni, alla quasi parità con il PIL americano.

L’Europa,  terra antica di fedi inconcilabili, dopo il suicidio collettivo tentato ben due volte nella prima metà del ‘900, si è votata alla dottrina della Pace, sotto la protezione delle armi americane e sotto la minaccia di quelle sovietiche.  La caduta dell’Unione Sovietica ha lasciato quindi spazio a incerti equilibri, costruiti tra la volontà di fondare una nuova Europa senza frontiere e basata sui valori liberali, e la continuità dei miti nazionali, resi inoffensivi e gestiti da una specie di “Corte di mediazione” permanente tra interessi nazionali pubblici e privati, politici e lobbistici, a cui abbiamo dato la pomposa definizione di Unione, con tanto di bandiera di stelle in campo azzurro.

L’America del dollaro liberato dal limite della base aurea, ha colonizzato il globo con i suoi infiniti capitali e accumulato ricchezze smisurate in mano ai magnati finanziari di Wall Street e dei giganti tecnologici californiani, divenuti un’aristocrazia senza patria. Nel contempo – delocalizzando le attività manifatturiere, fonte di stabilità occupazionale – la sua economia ha subito una progressiva deindustrializzazione, che ha contribuito a una rottura sociale la cui composizione resta ancora incerta. Patria dell’uomo libero di pensare e provare a realizzare l’impossibile, ha inventato le autostrade digitali che hanno connesso il mondo in un click e aperto la via, forse, a macchine pensanti e dotate di intelligenza artificiale. Ricca di petrolio,  gas e tecnologia, l’America ha smarrito tuttavia la fiducia nel “sogno americano” e sta tornando alla sua antica anima isolazionista, in cui non c’è più posto per la difesa della “fede liberal-democratica” con cui aveva interpretato il suo ruolo internazionale e giustificato il suo “impero del bene”. 

La fine della politica condotta sotto le bandiere di fedi universali  di cui i due grandi “imperi” del secondo ‘900 si erano fatti tutori, sta lasciando spazio al ritorno dell’identità chiusa della tribù e della città-stato, che per sua natura privilegia gli interessi dei cittadini o sudditi che siano, prima e, se necessario, contro quelli di chi ne sta fuori. Il ritorno dell’America a patria dei suoi interessi particolari e non più della democrazia universale, obbliga l’Europa a scommettere su se stessa, ponendo fine alla finta unità di intenti, nascosta sotto inutili regolamenti gestiti da onerose burocrazie. In questo generale ritorno ai valori di identità antiche l’Europa appare perdente, proprio perché non ne ha una a cui riferirsi. È la sfida a cui  il rapporto Draghi l’ha recentemente richiamata, senza che ne sia stata compresa la drammatica urgenza.

Dunque molto è cambiato in un “ecumene” popolato ormai da 8 miliardi di persone, dove l’avvento dell’informazione globale e il venir meno di equilibri politici ed economici di lungo termine, impongono anche a popoli che per secoli hanno vissuto un loro stabile presente, lontano dal progresso tecnologico, l’obbligo di inseguire una nuova terra promessa, avviando grandi migrazioni di massa, se privati della speranza di poterla costruire a casa loro. Fenomeni che evocano quanto avvenuto in Europa nel 4° e 5° secolo, fino all’esito della nascita dei regni romano-barbarici

L’era dell’informazione globale accelera sviluppo e contrasti. Globalizza conoscenza, ma non le culture, che hanno tempi di elaborazione secolari. L’umanità del 21° secolo appare come un grande laboratorio, in cui una galassia di culture si sta fondendo e in cui le certezze sono in costante evoluzione, rendendo tanto più complessa la composizione dei conflitti di interessi e valori che già alimentano conflitti militari.

Questo il contesto in cui, due anni fa, Putin ha scatenato l’invasione dell’Ucraina, riaffermando l’uso della guerra di conquista territoriale – per ora solo regionale – come metodo di esercizio di potere e di influenza, incompatibile però con un mondo che ha necessità di continuare ad integrare l’economia globale, pena il ridimensionamento della ricchezza, a sostegno di una demografia mai raggiunta prima nella storia umana. Ricchezza che, se venisse a mancare,  costituirebbe una inevitabile premessa per l’avvio di conflitti esistenziali. La ricchezza del mondo non potrà che regredire, come è sempre accaduto, quando le frontiere hanno impedito i liberi commerci.

La domanda che dobbiamo porci è se sia possibile un sistema internazionale tra “diversi”, per valori identitari e prassi di governo, fondato su una convivenza politica pacifica e collaborativa e sull’integrazione economica. Henry Kissinger spesso faceva riferimento alla pace di Westfalia come esempio di assetto di relazioni internazionali fondato sulla convivenza multilaterale pragmatica, ma il caso non è omogeneo alla situazione attuale. Al tempo le economie non erano integrate e il mondo non era “finito” per le nazioni firmatarie, come oggi invece lo è perché coinvolge tutta la comunità internazionale globale. 

Se vorremo evitare l’oscuro percorso di conflitti dai limiti indefiniti dovremo affrontare l’inevitabile sfida di un nuovo pragmatismo. Quello di un uomo terreno che veda la convivenza pacifica come una pragmatica necessità di sopravvivenza, e non agisca per un bisogno di coerenza trascendentale, come quella implicita a fedi inconciliabili. Un uomo che persegua la pace di Machiavelli e non l’ordine messianico di chi predica la salvezza dell’anima e non la continuità della carne, che nel nostro prossimo futuro rischia di essere messa in gioco per milioni, se non miliardi  di persone, a causa di conflitti e impoverimento. Senza la capacità di accettare e convivere con  culture e “patrie” diverse  in nome dell’utilità, si avvieranno nuove guerre identitarie, come quella di Putin, degli Ayatollah all’Occidente o quella che  Xi Jinping minaccia verso Taiwan, per esercitare un ruolo egemonico sull’Asia e un’influenza decisiva sul commercio internazionale. Il rischio che lo scontro da “freddo” diventi “caldo”, si alzerà di molto.

Nella sua storia, l’umanità ha dimostrato una grande capacità di adattamento a sempre nuove sfide e situazioni, ma non sembra ancora aver trovato soluzione al conflitto interiore tra le esigenze di appartenenza a valori e identità collettive che diano significato all’esistenza degli individui, e di azione dettata dalla “ragione pratica”, di perseguire interessi e coltivare identità e fedi diverse, mantenendo una pacifica convivenza. (Public Policy)

*presidente Termomeccanica SpA