di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – La democrazia è il peggior sistema di governo, se si escludono tutti gli altri. Allo stesso modo, per rispondere alla destrutturazione partitica ai tempi della caduta delle ideologie, alla disintermediazione tra leader e cittadini nell’era di internet, alle evoluzioni autoreferenziali della classe dirigente negli anni della casta che tanto distacco ha prodotto verso i cittadini, per adesso, nessuno ha inventato metodo migliore delle primarie.
Più volte si sono dimostrate un propulsore fenomenale, come per Prodi nel 2006, Vendola, Marino, Vincenzi, Orlando, Pisapia, Doria, Oliverio, De Luca, Emiliano e lo stesso Renzi… Altre volte, come per Rita Borsellino, Ferrante, Ambrosoli o Moretti, se non hanno anticipato la vittoria, hanno comunque creato partecipazione e legittimazione positiva.
Poi, purtroppo, ci sono i casi in cui le primarie hanno lasciato ombre e discredito, come le ultime “taroccate” di Napoli o quelle di Roma, con quasi 3000 “schede bianche” (e votare bianca a una primaria è come andare al ristorante a vedere gli altri mangiare). Ma, i cinesi a Milano per l’elezione di Sala, come i precedenti in Liguria, a Caserta, Eboli, Ercolano o altrove hanno reso il sistema opaco. Altre volte, poi, più che il discredito mediatico, sono state le rotture ex-post degli sconfitti e le candidature “contro” a rivelarsi un boomerang, soprattutto quando le elezioni sono a turno unico, come nel caso delle regionali liguri.
Purtroppo, senza una minima regola, ogni volta le primarie si svolgono con criteri diversi: solo per i militanti, come nel 2013 per la Lega; aperte a tutti, come per l’Unione nel 2005, o solo agli elettori “certificati”, come per la coalizione di centrosinistra nel 2012; una volta valgono solo per il singolo partito, come per il Pd nel 2007 e nel 2013 e un’altra per l’intera coalizione, come per “Italia Bene Comune” sempre nel 2012.
Così, ogni volta ognuno può dire la sua, porre dubbi su legittimità dei vincitori e regolarità dello spoglio, con litigi, abbandoni e scissioni dalle conseguenze autolesioniste. Oppure, come per la vittoria di Marino a Roma, i risultati sono la base per uno scontro fratricida a tutto svantaggio dei cittadini.
In questi giorni, con Trump in ascesa per la nomination repubblicana e Hilary per quella democratica, lo show delle primarie americane ridicolizza quelle italiane. Ma lo strumento non è da buttare, anche perché è l’unico a disposizione per colmare il gap tra elettori ed eletti, tra politica e società, tra cittadini e istituzioni.
La Camera ha iniziato l’esame di un progetto di legge sui partiti che, escludendo sia solo rivelarsi mossa tattica per attaccare il partito “non-partito” che ha uno statuto “non-statuto”, potrebbe essere la migliore occasione per regolamentare le primarie.
Senza obbligare ad utilizzare un metodo in via di definizione in una fase di transizione istituzionale e metamorfosi dei soggetti politici, sarebbe comunque utile poter istituire primarie aperte, finanziate almeno in parte con risorse pubbliche, visto che sono strumento di democrazia, con un collegio indipendente di garanzia e con “circoscrizioni” ricalcate sulle sezioni elettorali. E, last but not least, alle primarie è ammesso solo chi può poi andare a votare alle elezioni “secondarie”, ad evitare file di immigrati, minorenni o pullman che vengono da altre città. Ecco, non servono “albi” di militanti ideologizzati che spesso selezionano candidati d’apparato e appartenenza.
L’importante è che, nel regolarle, si scelga un metodo buono per il principio e non per l’opportunità politica e contingente di favorire una parte a discapito di un’altra. Per questo servirebbe solo qualche regola. Certo, sarebbe bello fare da soli, ma per adesso non esiste metodo migliore. (Public Policy)
@GingerRosh