di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Tra via XX Settembre e Palazzo Chigi si comincia a ragionare sulla prossima legge di Bilancio. Non sarà di facile stesura, si intende, ma l’ormai ontologica condizione del “non ci sono soldi” dello Stato italiano, nonostante tutto potrebbe non essere un problema così impossibile da superare (a differenza del nuovo e meno conosciuto tetto alla spesa primaria strutturale).
È vero, il nuovo Patto di Stabilità esclude il ricorso a nuovo deficit e, anzi, se dovesse essere confermato il piano settennale di rientro dallo 0,6% all’anno, servirebbe una correzione di circa 13 miliardi. A cui aggiungere i soldi necessari per reiterare il taglio al cuneo fiscale, la cancellazione di una aliquota Irpef, quota 103 penalizzata e le solite spese indifferibili. Si arriva così ad una somma tra i 25 e i 30 miliardi, senza poter introdurre alcuna nuova misura tra le tante sbandierate misure, per esempio la Quota 41 voluta dalla Lega.
Come raggiungere tale ammontare? I calcoli sono in corso, ma qualche evidenza c’è già. Prima di tutto, il calo dei prezzi dell’energia ha comportato una serie di risparmi non previsti. Ma soprattutto, nel primo quadrimestre dell’anno gli incassi tributari sono aumentati del 10,5% sullo stesso periodo dello stesso anno (circa 15 miliardi in più). Il Def prevedeva un aumento del 2,7% in tutto il 2024. Ora, vedremo se questo “boom” sarà confermato per gli altri 8 mesi. In tal caso, si tratterebbe di qualcosa di più di un tesoretto.
Provando a sezionare e spiegare questo aumento di maggiori entrate fiscali si possono trovare altri elementi che aiuterebbero la composizione della prossima manovra. Una maggiore occupazione, più imposte indirette, più imposte dirette societarie, e soprattutto una crescita economica maggiore del previsto. Se si calcola l’andamento del pil del primo trimestre al netto delle scorte abbiamo infatti un aumento congiunturale dell’1% e tendenziale del 2,7%. E poi, ovviamente, le maggiori entrate fiscali sono dovute dai rincari inflazionistici: un fenomeno fondamentale non del tutto negativo per chi sta scrivendo la prossima manovra. Se aumentano i prezzi aumentano anche gli incassi delle imposte calcolate in percentuale (per esempio l’Iva o Irpef). Inoltre, una spesa pubblica nominale che non aumenta, con un’inflazione superiore al 2%, di fatto scende in termini reali. Se si vuole vedere la stessa cosa da un’altra angolazione si può citare l’Upb, secondo cui gli ultimi due anni di rincari dei prezzi sono stati sufficienti a mangiarsi dieci anni di tagli Irpef (quindi anche gli 80 euro di Renzi). Insomma, se sulla carta lo Stato non taglia le spese, ci pensa l’inflazione a farlo. E, complice l’aumento di entrate fiscali spinte sempre dal rincaro dei prezzi, la situazione dei conti migliora.
Ma non finisce qui. Girano voci su una nuova stretta all’indicizzazione agli assegni pensionistici sopra i 1.200 euro al mese, in modo molto più incisivo di quanto non sia già stato fatto con la riduzione progressiva degli scorsi anni (che ha già fruttato circa 14 miliardi in 4 anni). D’altra parte, fanno notare in via XX Settembre, il potere d’acquisto delle pensioni in questi anni si è sostanzialmente mantenuto, a differenza di gran parte delle retribuzioni. E poi è sempre la spesa pensionistica che rappresenta una delle fette più grandi della spesa pubblica. Vedremo se sarà necessario.
Dipenderà anche dalle nuove potenziali fonti di entrata. Il nuovo “condono” sulla casa potrebbe fruttare fino a 10 miliardi, dicono dal Mit. E poi la tassa sul turismo, sulla plastica, sullo zucchero, sulle emissioni delle navi (ETS). Anche lo scivolone sul redditometro di Maurizio Leo – che poi uno scivolone non è visto che si tratta di uno strumento residuale che serve a identificare gli evasori totali – punta a reperire risorse. Un po’ come il concordato biennale preventivo da cui il viceministro si aspetta di ricavare 700 milioni quest’anno e 1,7 miliardi il prossimo.
Stando alle certezze, secondo la Relazione Tecnica della Ragioneria, l’abrogazione dell’ACE comporta un recupero di gettito pari a 4,8 miliardi nel 2025 e 2,8 miliardi a regime. Denari che si vorrebbe trasferire, se possibile, a nuovi incentivi alle assunzioni. C’è poi da rilevare come quasi 30 miliardi del Pnrr siano finiti in spesa corrente, detrazioni fiscali per bonus edilizi e incentivi alle imprese. Ora, se la gestione dei fondi europei continuerà di questo passo ci saranno nuovi problemi, ma intanto si tratta di una bella iniezione di liquidità per i nostri conti. Ecco, potremmo essere di fronte ad una manovra di “contenimento”. Come è stata quella di Draghi del 2021, con gran parte degli investimenti e delle riforme venne dirottata su un altro binario, quello del Pnrr.
Piuttosto, oltre alla consunta fragilità dei conti pubblici, problema che da anni viene affrontato calciando la lattina più avanti, c’è un inedito piccolo grande vincolo posto dal nuovo Patto di Stabilità, che pone un problema nuovo e complesso. Quello del tetto alla spesa primaria strutturale, cioè all’impossibilità di aumentare entro una certa soglia i finanziamenti a stipendi, pensioni, sanità. Una previsione che, oltre al “lucro cessante” (non vengono spesi nuovi soldi), pone una questione di “danno emergente” (tagli reali e concreti alla spesa). Effettività, ammontare, applicazione, tutto dipenderà dalla composizione della nuova Commissione. E dal suo atteggiamento verso l’Italia e verso il Governo. (Public Policy)
@m_pitta