Così Trump trasforma anche la crisi in Venezuela in una sfida alla Cina

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di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – 10 maggio 2009. Nel giorno della Festa della Mamma, il presidente venezuelano Hugo Chávez lancia in diretta televisiva nazionale il primo cellulare “made in Venezuela”, prodotto dalla società locale Vetelca. Davanti alle telecamere, telefona alla madre per dirle che il modello ribattezzato “Vergatario” con il quale la sta chiamando potrà sbaragliare la concorrenza di tutto il “mercato capitalistico” grazie all’estrema funzionalità e al prezzo contenuto. Dopo qualche mese, una scena simile: Chávez, nel corso di una riunione ufficiale dell’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA) promossa da Venezuela e Cuba, mostra agli altri capi di governo il solito cellulare “Vergatario”. Stavolta lo esalta come frutto della collaborazione tecnologica tra Repubblica bolivariana del Venezuela e Repubblica popolare cinese. Il Vergatario, infatti, proviene dalla catena di montaggio di uno stabilimento di Punto Fijo, nello stato di Falcon a nord-ovest del Paese, aperto grazie all’impegno del colosso cinese delle telecomunicazioni ZTE. Il “made in Venezuela”, insomma, è allo stesso tempo “made in China”, e Chavez se ne vanta.

22 gennaio 2019. Hugo Chávez non c’è più, è morto nel 2013 e alla presidenza del Paese lo ha sostituito il suo fedele delfino Nicolas Maduro; la madre del leader bolivariano, Elena Frías de Chávez, gli è sopravvissuta, ma stavolta non è lei la destinataria di quella che potrebbe essere una delle telefonate più importanti della storia del Venezuela. Nella tarda serata del 22 gennaio scorso, il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, si mette in contatto con il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana, Juan Guaidó, per comunicargli che Washington è pronta a sostenerlo se deciderà di assumere la presidenza ad interim del Paese. La mattina successiva, il 23 gennaio 2019, Guaidó durante una manifestazione dell’opposizione ribadisce l’irregolarità delle elezioni che hanno riconfermato Maduro e, appellandosi all’articolo 233 della Costituzione, si autoproclama Presidente del Paese fino alla prossima scadenza elettorale, avviando un’inedita prova di forza con il successore di Chávez e il suo apparato di potere.

Nei dieci anni intercorsi tra la telefonata di Chavez alla madre e quella del vicepresidente Pence a Guaidó, la crisi economica in Venezuela si è aggravata, mentre si è rafforzata la stretta autoritaria del governo, e tutto ciò contribuisce a spiegare il nuovo atteggiamento di Washington nei confronti di Caracas. Tuttavia quel cellulare low-cost brandito dieci anni fa da un trionfante Chávez, a testimonianza della relazione speciale tra il suo Paese e la Cina, non può essere ritenuto completamente estraneo alla decisione dell’Amministrazione Trump di schierarsi con rinnovata convinzione a favore di un regime change in Venezuela. Anzi. Tra gli analisti di geopolitica, infatti, la postura più aggressiva degli Stati Uniti nei confronti di Maduro è letta sempre più diffusamente come “la prima tappa” di un piano che punta a riconfigurare l’America latina, mettendo un freno all’avanzata di Paesi come Russia, Cina, Iran e Cuba nel continente sudamericano.

Detto altrimenti: con le tensioni commerciali tra Washington e Pechino non ancora sopite, nel pieno del duello sino-americano sulla sicurezza delle infrastrutture dell’informazione (5G e dintorni), il Venezuela può essere legittimamente considerato un ulteriore fronte scelto da Trump per contrastare le ambizioni dell’omologo Xi Jinping. La joint-venture tra la cinese ZTE e la venezuelana Vetelca che nel 2009 diede i natali al cellulare Vergatario, infatti, è soltanto la punta di un iceberg fatto di investimenti cinesi nel Paese. Già prima del 2009, per esempio, il governo di Caracas aveva appaltato a Huawei, un altro colosso cinese oggi additato a livello mondiale per i suoi presunti legami col Partito comunista, la posa della fibra ottica nelle aree rurali del Paese. Huawei, che in Venezuela è arrivata ad avere quasi 2.000 dipendenti (tra i quali centinaia di nazionalità cinese), ha collaborato anche con gli apparati militari locali. La presenza dell’ex Impero celeste è così importante da finire spesso sotto gli occhi dei 30 milioni di cittadini venezuelani. Tra il 2011 e il 2012, per esempio, circa 3.000 operai cinesi lavorarono alla costruzione di decine di casermoni rossi di una ventina di piani destinati a ospitare alloggi popolari nel distretto di Ciudad Tiuna, a Caracas. L’anno scorso, poi, una task force di ingegneri cinesi del solito gruppo ZTE è entrata a far parte della pianta organica dell’azienda pubblica venezuelana Cantv per lavorare alla diffusione di un documento d’identità elettronico, il “carnet de la patria”, che assicura benefit sociali ai cittadini e un controllo occhiuto agli apparati di sicurezza locali. Sono soltanto alcune delle manifestazioni di una presenza economica cinese sempre più pervasiva nel Paese e, in generale, in tutta l’area.

L’AMERICA LATINA “STRATEGICA” PER LA CINA 

Il valore complessivo degli scambi commerciali tra Cina e America latina è passato da 17 miliardi di dollari americani nel 2002 a 257 miliardi nel 2017. Xi si è prefissato l’obiettivo di raddoppiare questo volume d’affari nell’arco di dieci anni. La Cina nel 2017 ha importato beni da tutta l’America latina per un valore di 126 miliardi, il 7% del totale delle importazioni di Pechino, acquistando soprattutto minerali, soia, petrolio e rame. Le risorse naturali dell’area sono d’altronde il principale fattore di attrattività per il Paese che consuma più energia in tutto il pianeta. Dei 200 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri cinesi in America latina, la maggior parte è destinata allo sfruttamento di queste risorse. Nemmeno la finanza del Dragone è rimasta alla finestra: oggi banche cinesi come la China Development Bank e la China Export-Import Bank si sono imposte, secondo il centro studi del Congresso statunitense, come le più importanti finanziatrici nell’area, erogando prestiti per 150 miliardi di dollari tra il 2005 e il 2017. Nello stesso periodo, il Venezuela è diventato il primo destinatario di finanziamenti cinesi in tutta la regione, per un valore di oltre 62 miliardi, soprattutto attraverso accordi del tipo “prestiti-in-cambio-di-petrolio”. Secondo la rivista Foreign Affairs, “ancora prima che il prezzo del petrolio cominciasse la sua discesa nella seconda metà del 2014, i prestiti dello Stato cinese erano diventati una fondamentale ancora di salvezza per il governo venezuelano”. Il quotidiano finanziario Wall Street Journal fornisce ulteriori dettagli su questa relazione ormai definita “strategica” dallo stesso Partito comunista cinese: “Il Venezuela ancora deve restituire circa 20 miliardi di dollari a Pechino, secondo stime del ministero per il Commercio cinese. Oltre a ciò, la Cina è il secondo principale fornitore di armi del Venezuela alle spalle della Russia, e – secondo stime cinesi – ha fatto investimenti diretti per 3,2 miliardi di dollari nel 2017. Tra questi investimenti figurano almeno tre diverse joint-venture tra l’azienda nazionale energetica PDVSA e la China National Petroleum Corp”.

La complementarità economica tra Cina e Venezuela, la vicinanza ideologica tra le rispettive leadership e soprattutto i piani congiunti di espansione strategica nell’area latinoamericana sono vissuti con crescente insofferenza a Washington. Lo ha ben sintetizzato di recente il Centro studi del Congresso statunitense: “Sotto le Amministrazioni di George W. Bush e di Obama, i funzionari statunitensi, pur senza nascondere alcune preoccupazioni sull’influenza della Cina, hanno generalmente visto in maniera positiva il coinvolgimento di Pechino in ragione del suo contributo alla crescita economia della regione. L’obiettivo di fondo della politica statunitense era che la Cina contribuisse dal punto di vista economico allo sviluppo dell’area in un modo trasparente, attendendosi alle regole internazionali e rispettando le normative locali sulle condizioni ambientali e lavorative”. Tanto che, dal 2006 al 2015, Stati Uniti e Cina hanno organizzato tra loro sette incontri bilaterali che avevano ufficialmente in agenda l’America latina. “Diversamente – scrivono i ricercatori del Congresso – l’Amministrazione Trump ha visto il protagonismo cinese in America latina con sospetto crescente. Nella National Security Strategy stilata nel 2017 dall’attuale Amministrazione, c’è scritto che ‘la Cina sta tentando di attrarre la regione nella propria orbita attraverso investimenti e prestiti messi in campo dallo Stato’, e nello stesso documento si esprime preoccupazione per il sostegno di Pechino ‘alla dittatura in Venezuela’”. Nella crisi politica venezuelana di queste settimane, non a caso, la Cina – insieme alla Russia – è una delle potenze mondiali che si sono schierate con il governo di Maduro e non invece con l’opposizione di Guaidó sostenuta da Stati Uniti, Canada e dalla maggior parte dei Paesi americani.

TRUMP E LA “DOTTRINA MONROE 2.0”

Il giovane leader democratico venezuelano, per il momento, ha comunque mantenuto un atteggiamento possibilista nei confronti di Mosca e Pechino: “Io personalmente non ritengo che Russia e Cina siano dalla parte di Maduro – ha dichiarato Guaidó – Stanno semplicemente proteggendo i loro investimenti qui in Venezuela”.

Se nelle prossime settimane gli Stati Uniti (e il mondo democratico) perdessero la loro scommessa sull’opposizione venezuelana, l’asse sino- sudamericano uscirebbe sicuramente rafforzato nel breve termine. Rimarrebbe però, nel medio-lungo termine, un problema di sostenibilità del pilastro venezuelano di tale asse, considerata la crisi economica generalizzata del Paese e in particolare le difficoltà crescenti del suo settore petrolifero prostrato dalle inefficienze interne e dalle sanzioni esterne decise da Washington.

Se invece il regime change auspicato dall’opposizione venezuelana avesse esito positivo, gli Stati Uniti segnerebbero un indiscutibile successo nel breve termine. Nel medio-lungo termine, come lasciano intendere i contatti informali che già sarebbero avvenuti tra gli emissari di Pechino e l’opposizione democratica locale, la Repubblica popolare cinese con realismo cercherebbe un’intesa per non compromettere del tutto la sua esposizione economico-finanziaria in Venezuela. La leadership comunista probabilmente riuscirebbe nell’intento, ma la sua proiezione internazionale uscirebbe parzialmente ridimensionata per il fatto di aver dovuto subire l’iniziativa e la tempistica stabilite a Washington. Assistiamo dunque a una sorta di riedizione della dottrina Monroe con la quale, all’inizio del XIX secolo, gli Stati Uniti dichiararono di voler tenere fuori dal proprio emisfero sia gli europei sia i russi. Considerato che gli europei da qualche tempo paiono perlopiù ipnotizzati dal proprio ombelico, questa “dottrina Monroe 2.0” non poteva che avere i soliti russi e i nuovi arrivati cinesi come principali obiettivi. (Public Policy)

@marcovaleriolp