L’epidemia di Coronavirus minaccia anche l’ascesa geopolitica dell’Iran

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di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – La Torre Azadi, la porta monumentale di accesso alla capitale iraniana, uno dei simboli di Teheran, fu inaugurata nel 1971 per celebrare il legame millenario del Paese – governato allora dallo Scià Reza Pahlevi – con l’impero persiano. Nel 1979 i rivoluzionari guidati da Ruhollah Khomeini decisero di preservare questo simbolo moderno, ormai caro alla popolazione locale, limitandosi a rinominarlo e a intitolarlo alla “Libertà”. Lo scorso 18 febbraio, gli ottomila blocchi di marmo bianco che ricoprono la torre per 45 metri di altezza si sono tinti di un rosso intenso, interrotto soltanto da cinque stelle gialle e da due scritte bianche: “Wuhan, sii forte!” e “Cina, sii forte!”. Uno spettacolare gioco di luci con cui le autorità locali di Teheran hanno espresso solidarietà alla Cina, alle prese con la letale epidemia di Coronavirus originata nella città di Wuhan. Solidarietà espressa subito dopo dal ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Mohammad Javad Zarif, il primo a telefonare al collega cinese Wang Yi, come ha fatto sapere la stessa Pechino.

Esattamente ventiquattr’ore dopo l’imponente installazione di luci, il 19 febbraio, le autorità iraniane comunicano, senza troppa enfasi, i primi due decessi nel Paese per colpa del Coronavirus. Col passare delle ore emergono alcuni dettagli: i due erano cittadini iraniani – ammettono fonti ufficiali – in età avanzata e immunodepressi. “Naturalmente non ci sono preoccupazioni e abbiamo preso tutte le misure di controllo”, commenta il viceministro della Sanità Qasim Jan-Babaei. Per il 21 febbraio sono previste le elezioni parlamentari e i vertici della Repubblica islamica temono che il disincanto della popolazione – per la crisi economica sempre più grave, la repressione dopo le manifestazioni dello scorso novembre e le battute d’arresto in politica estera – si trasformi in una massiccia astensione. Notizie di un’epidemia diffusa aggraverebbero il quadro. Il Coronavirus rimane dunque sullo sfondo del dibattito pubblico, le autorità si limitano a far sapere che i cittadini nelle cabine elettorali non saranno obbligati a farsi marchiare le dita con l’inchiostro, pratica che potrebbe contribuire a diffondere l’infezione.

Il 23 febbraio, alla luce dell’affluenza alle urne più bassa mai registrata in una consultazione elettorale iraniana dal 1979 a oggi, pari al 42,5% degli aventi diritto, la Guida suprema del Paese decide di intervenire pubblicamente. Ali Khamenei parla della nuova epidemia ma soltanto per scagliarsi contro i media stranieri, accusati di aver tentato di “convincere le persone a non votare col pretesto della diffusione di un virus”.

IL CONTAGIO COLPISCE L’ESTABLISHMENT IRANIANO 

Nel frattempo, però, le notizie sull’epidemia cominciano ad aumentare. I casi sono diventati evidentemente troppo numerosi per qualsiasi minimizzazione. Le emittenti internazionali come la CNN e la BBC pubblicano video di ospedali e obitori al collasso, soprattutto nella città santa di Qom, considerata l’epicentro del contagio. I social network rilanciano immagini, non tutte verificabili, dello stesso tenore. Per la prima volta, immediatamente dopo il voto, interviene anche l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), “preoccupata per l’aumento di casi di Coronavirus in Iran”. La retorica del complotto straniero lascia progressivamente il passo a comunicazioni asettiche ma dirompenti, come quando il 24 febbraio le autorità annunciano 64 casi di contagio nel Paese e 12 decessi. Nei primi giorni di marzo arrivano misure di contenimento sempre più dure: la chiusura delle scuole e delle università fino ad aprile, il rinvio degli eventi sportivi pubblici e privati in tutto il Paese, lo stop alle preghiere nelle grandi città del Paese venerdì scorso, infine i posti di blocco sulle principali arterie stradali per impedire gli spostamenti della popolazione. Un giudizio ponderato sulla reazione del governo, quantomeno tardiva, potrà essere dato solo più in là, ma già non mancano le critiche. Alla fine di febbraio un parlamentare della città di Qom sfida le autorità, dice che i morti sono molti più di quelli dichiarati. Il vice ministro della Salute, Iraj Harirchi, lo smentisce seccamente. Ventiquattr’ore dopo, però, la conferenza stampa in cui Harirchi parla da un podio asciugandosi la fronte madida di sudore fa il giro delle redazioni di tutto il mondo: quelli mostrati a favore di camera dal viceministro, infatti, sono i sintomi di una persona che poco dopo sarà dichiarata positiva al Coronavirus.

Il viceministro della Salute Harirchi diventa il primo di una lunga lista di membri dell’establishment iraniano che saranno investiti dall’epidemia. Viene dichiarato morto per Coronavirus, per esempio, Mohammad Mirmohammadi, 71 anni, membro del Consiglio per il discernimento, una istituzione regolarmente consultata dall’Ayatollah e che funziona come una sorta di arbitrato tra altre istituzioni. Deceduto anche Hossein Sheikholeslam, 67 anni, consulente del ministro degli Esteri Zarif, lui stesso in passato viceministro degli Esteri, che da studente nel 1979 fu tra i protagonisti della presa di ostaggi americani all’Ambasciata degli Stati Uniti a Teheran. Le agenzie locali e internazionali danno conto di altri decessi, anche se non per tutti c’è ancora conferma: Ahmad Toyserkani, consigliere del capo dell’Autorità giudiziaria; Hadi Khosroshahi, primo ambasciatore della Repubblica Islamica in Vaticano; Mojtaba Pourkhanali, responsabile del ministero dell’Agricoltura per la provincia settentrionale di Gilan; Mojtaba Fazeli, segretario di un leader religioso. Ventitré i parlamentari iraniani contagiati, uno dei quali è morto, Mohammad Ali Ramezani, neoeletto della provincia di Gilan, e un altro in coma, Fatemeh Rahbar, di Teheran; positivo al test per il Coronavirus anche Mojtaba Zonnur, vicepresidente della Commissione parlamentare per la sicurezza nazionale e la politica estera. Positiva Massoumeh Ebtekar, vicepresidente del Paese con delega per gli Affari della famiglia e delle donne, nel 1979 portavoce degli studenti islamici che assaltarono l’Ambasciata americana. Così come pure un altro vicepresidente del Paese, Eshagh Janangiri, e il ministro dell’Industria, Reza Rahmani, il primo ricoverato e il secondo in quarantena secondo le agenzie Fars e Iranwire; per l’agenzia ILNA, sarebbe positivo Pirhossein Koulivand, a capo della struttura nazionale per le emergenze. Infine, scrive Radiofarda, anche le riunioni del Consiglio della capitale Teheran potrebbero essere sospese dopo che il sindaco di uno dei 22 distretti della città, Mojtaba Rahmanzadeh, è risultato positivo.

IL CONTAGIO E LA GEOPOLITICA DELLA MEZZALUNA SCIITA

In uno dei Paesi più duramente colpiti dall’epidemia di Coronavirus (all’8 marzo scorso i contagiati sono 6.566 e i decessi 194, stando ai dati ufficiali), la classe dirigente è dunque particolarmente colpita. Peraltro in un contesto – economico, sociale e internazionale – già nient’affatto semplice. Al punto che la proiezione esterna della Repubblica Islamica dell’Iran – motore della cosiddetta “Mezzaluna sciita” che da Teheran si spinge a ovest fino a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, e poi a est verso l’Afghanistan – potrebbe essere in qualche modo intaccata, secondo alcuni analisti. Ne è convinto Hillel Frisch, del Begin- Sadat Center for Strategic Studies, che scrive:

“La Mezzaluna sciita dell’Iran, che fino a pochissimo tempo fa ha dispiegato la sua portata imperiale nel mondo arabo, adesso ha assunto caratteristiche letteralmente patologiche con la diffusione del Covid-19. Uno studio del Center for Infectious Disease Research and Policy dell’Università del Minnesota ha rivelato, implicitamente, quanto siano stati – e continuino a essere – decisivi i legami religiosi dell’Iran con le comunità sciite nei Paesi arabi nella diffusione dell’epidemia. I cinque Paesi mediorientali che hanno riportato per primi casi di Covid-19 – Afghanistan, Bahrein, Kuwait, Iraq e Oman – hanno tutti percentuali significative di sciiti nella loro popolazione, e tutti questi casi sono chiaramente collegati all’Iran. […] Il legame tra i pellegrini sciiti e la diffusione del virus va ricercato a quella che è la fonte per tutta la regione: l’Iran, e nello specifico la città di Qom”.

Perfino l’Iraq, Paese che negli ultimi anni è almeno in parte entrato nell’orbita iraniana, ha sigillato le sue frontiere con la vicina Repubblica islamica immediatamente dopo la chiusura della campagna elettorale per le elezioni parlamentari di Teheran. Segnali di debolezza per gli Ayatollah, proprio mentre Libano e Iraq, Paesi nelle cui classi dirigenti l’influenza iraniana è evidente, sono percorsi da vibranti proteste di piazza anti establishment. Segnali che si aggiungono alla risposta sostanzialmente flebile dell’Iran dopo l’uccisione a gennaio sul territorio iracheno, da parte degli Americani, di Qassem Soleimani, capo delle Guardie iraniane della Rivoluzione, considerato il numero due di Teheran, secondo soltanto all’Ayatollah Khamenei.

Non è un caso che anche l’Arabia Saudita, uno dei Paesi guida del blocco islamico-sunnita che si contrappone all’espansionismo dell’islam sciita, abbia da subito infierito pesantemente sulla gestione dell’emergenza Coronavirus da parte di Teheran. Le autorità di Riad, oltre ad aver obbligato la minoranza sciita del proprio Paese a dichiarare i propri eventuali recenti spostamenti nella Repubblica islamica, hanno evocato una “diretta responsabilità dell’Iran nell’aumentare le infezioni di Covid-19 e nell’epidemia globale”.

Gli Stati Uniti, che con la Presidenza Trump sembrano aver compiuto una netta scelta di campo pro Arabia Saudita a discapito dell’Iran, hanno offerto assistenza umanitaria a Teheran ma si sono visti rispondere con un netto rifiuto. A quel punto Brian Hook, rappresentante speciale di Washington per l’Iran, ha detto pubblicamente che la diffusione così ampia del virus è dovuta “alla malagestione del governo” che avrebbe “mentito alla propria popolazione riguardo all’entità dell’epidemia”.

Nemmeno a Israele, infine, sfuggono le possibili implicazioni del caos attuale. Lo Stato ebraico confina con la Mezzaluna sciita, a nord con il Libano e ad est con la Siria, e ora ha preso a scrutare quest’ultima con particolare attenzione, specialmente da quando Teheran e Mosca sono riuscite a ribaltare le sorti del conflitto locale, tenendo in sella il presidente Bashar al Assad. Mercoledì scorso Israele avrebbe colpito un impianto militare a Homs, gestito da milizie iraniane in Siria, perché sospettato di produrre armi chimiche. Come di consueto in casi simili, non ci sono state conferme ufficiali, tuttavia il quotidiano israeliano Yedioth Ahronot ha ricollegato questa specifica operazione al fatto che a Gerusalemme ci sarebbe “la sensazione che l’Iran possa essere costretta a ridurre il sostegno ad Assad a causa del diffondersi del Coronavirus nel proprio territorio”.

Tuttavia, come ha scritto Maurizio Molinari nel suo libro “Assedio all’Occidente”, oltre all’ascesa dell’Iran come “avversario strategico degli Stati Uniti, alleati di sunniti e israeliani”, si registra la parallela “presenza di forti legami politici dell’Iran con Russia e Cina [che] trasforma il Medioriente in un tassello della nuova Guerra Fredda”. La Repubblica islamica ne è consapevole e non ha mancato di far pesare la sua relazione con la Repubblica popolare cinese, come hanno notato tra gli altri sul New York Times Kamiar e Arash Alaei, due fratelli iraniani, oggi co-presidenti dell’Institute for International Health and Education in Albany:

“Le autorità iraniane non hanno mostrato in alcun modo di essere pronte a gestire un’epidemia di Coronavirus e hanno assunto un atteggiamento sprezzante verso il pericolo che esso costituiva. Il 31 gennaio, la Turchia, Paese confinante con l’Iran, ha cancellato i voli verso la Cina ed ha avviato lo screening dei passeggeri in arrivo negli aeroporti. Centinaia di studenti cinesi e di giovani religiosi studiano a Qom, il centro di studi teologici più importante per i musulmani sciiti di tutto il mondo, coi suoi luoghi santi che attraggono pellegrini. I businessman iraniani viaggiano spesso alla volta della Cina. Centinaia di lavoratori e ingegneri cinesi sono impiegati in Iran. La Cina è un importante partner per il Paese e Teheran non ha rischiato di offendere Pechino. I voli tra Iran e Cina sono continuati. L’Iran ha donato un milione di mascherine alla Cina”.

Una mano tesa che Pechino non ha lasciato cadere. Lo scorso 5 marzo, dunque non appena le autorità di Teheran hanno deciso di rendere pubblica la gravità della crisi da Coronavirus nel Paese, la Cina ha chiesto pubblicamente di “interrompere le sanzioni internazionali più importanti in essere contro l’Iran”, riferendosi alle sanzioni fortemente volute da Washington. Nelle stesse ore la potenzia asiatica ha inviato (simbolicamente) a Teheran un team di suoi medici, assieme a dei kit per effettuare il test e riconoscere il coronavirus, con tanto di lodi pubbliche dell’Oms e questo commento affidato in Italia all’agenzia Ansa- Xinhua: “Il virus non conosce confini ma neanche la disponibilità e il buon cuore della Cina”. (Public Policy)

@marcovaleriolp