di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Riuscirà Mario Draghi a resistere alle pressioni dei partiti della sua maggioranza? Soprattutto sono due quelli che destano qualche preoccupazione, M5s e Lega. Ma primo tra tutti, nella classifica degli assilli per Draghi, è il partito di Giuseppe Conte, che ha appena consegnato al presidente del Consiglio un pacchetto di lamentele contenente proposte che devono essere tutelate o ripristinate, dal reddito di cittadinanza al salario minimo, dal superbonus al cashback.
Draghi sembra non aver voglia di dare argomenti e pretesti al suo predecessore, che ogni giorno lancia penultimatum e pare sempre sul momento di andarsene. Senza però farlo per davvero, come se avesse timore di screditarsi definitivamente agli occhi del “sistema” di cui tanto si acconcia ad avversario ma soprattutto agli occhi del presidente della Repubblica.
Il grillismo è dunque in bilico, tra la sua anima incendiaria e quella istituzionalizzata. Non è ancora detta l’ultima parola, nel senso che Conte ha detto che sì, per ora resta al Governo, ma da qui a settembre le cose potrebbero cambiare. Anche perché sul M5s aleggiano gli spettri di Virginia Raggi e Alessandro Di Battista, impegnati in un’operazione quotidiana di ripristino delle origini. Sopratutto in solerte attività c’è l’ex deputato romano, che da giorni bombarda gli scissionisti (“Insieme per la colla vinilica”, li chiama), ma pure il M5s: “E anche oggi il Movimento 5 stelle esce dal Governo domani. Esprime a Draghi il proprio disagio, come se uno dei peggiori presidenti del Consiglio della storia fosse un prete nel confessionale. Chissà, magari il Movimento uscirà dal Governo dopo l’estate, quando i parlamentari avranno maturato la pensione. Magari uscirà dopo la finanziaria, momento d’oro per chi è alla ricerca di denari da trasformare in markette elettorali. O forse non uscirà mai”, dice Di Battista: “Intanto anche i più irriducibili sostenitori del Movimento, gli ultimi giapponesi direi, si domandano come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell’autolesionismo”.
Alcuni parlamentari, per la cronaca, non vedrebbero l’ora di uscire dal Governo Draghi, tant’è che a un certo punto si porrà la questione, magari pure con un voto online: restare o no? In questo caso però c’è da aspettarsi una ulteriore fuoriuscita di parlamentari, per ora rimasti nel M5s. Non tutti i superstiti dunque accetterebbero di seguire Conte all’opposizione.
L’altro partito che desta preoccupazione è la Lega, con una distinzione importante. Mentre nel M5s il disagio anti-Draghi è quello prevalente, nella Lega prevalgono dirigenti draghiani. Da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia, a Massimiliano Fedriga. La questione principale dunque riguarda il segretario, Matteo Salvini, che sembra aver perso lucidità in questa lunga maratona politica, non riuscendo a ripetere i fasti della stagione precedente, quando trasportò la Lega dal 4 per cento a oltre il 30. Come se ormai non fosse più possibile sparare di nuovo la pallottola dell’outsider-segretario. Dall’estate del 2019, da quella insomma del Papeete Beach, il leader della Lega ha perso il tocco. A differenza di partiti di sinistra pronti a logorare, sbranare e digerire i propri capi nella morsa delle correnti, la Lega mantiene intatto un certo rispetto per chi guida il partito. Il che non significa che i problemi non esistano. Dentro e fuori la Lega.
Meloni è un competitor serio anche perché, a differenza della Lega, non sembra inciampare sulla collocazione politica dell’Italia (guardiamo per esempio sulla guerra in Ucraina scatenata dalla Russia). Ha persino capito, Meloni, che non si può governare l’Italia contro l’Europa. E pur di infastidire l’alleato leghista, la leader di Fratelli d’Italia si è esposta in iniziative pubbliche insieme ad Enrico Letta (di recente alla Luiss per presentare il nuovo libro di Giovanni Orsina). Sempre offrendo all’elettorato le proprie idee, certo, ma la politica vive anche di simboli e se accetti di duellare con qualcuno lo stai legittimando. Letta e Meloni si legittimano a vicenda; il segretario del Pd non farebbe lo stesso con Salvini (e infatti evita accuratamente di fare eventi pubblici insieme a lui). Il che ci fa capire da dove arrivi il crescente senso di isolamento di Salvini, che rischia di vivere la presenza nel governo come fa Conte con il suo M5s: uscire potrebbe aiutare a recuperare consenso tra gli arrabbiati. C’è un’altra però con il M5s: la Lega deve rendere conto a una base sociale – specie quella che sta al Nord – che potrebbe far fatica a capire perché mollare un Esecutivo come questo, che è guidato non da pericolosi terzomondisti, ma da uno come Mario Draghi.
Senz’altro è arrivato il momento del disvelamento anche per la Lega e Salvini. Al Governo ci si sta seguendo le regole del gioco e di ingaggio, non facendo finta di essere all’opposizione per inseguire i compagni di coalizione che hanno messo la freccia a destra. Chi lo sa meglio di altri è proprio Giorgetti, primo dei draghiani della Lega. Il ministro dello Sviluppo economico teorizzava un Esecutivo con l’ex presidente della Bce ben prima che nascesse. Dunque va preso molto sul serio quando entra in collisione con chi nella stessa Lega sarebbe tentato da avventate scelte tardo-aventiniane. Anche se, come tutti i dirigenti del Carroccio, anche Giorgetti si rimette alle volontà di Salvini. Perché nella Lega – principio basilare – i segretari non si rottamano. (Public Policy)
@davidallegranti