Il modello Usa è in crisi e non saranno i dazi ad aggiustarlo

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di Enzo Papi

ROMA (Public Policy) – Nella logica dell’Amministrazione Trump i dazi servono a garantire una quota mercato nazionale riservata alla manifattura americana e dunque a incentivare il trasferimento negli Usa di stabilimenti produttivi che oggi soddisfano la sua domanda interna.

Al di là degli altri limiti, che vedremo, la guerra tariffaria si fonda sul presupposto, tutt’altro che dimostrabile, che per i fornitori di beni sia in ogni caso conveniente trasferire la produzione negli Stati Uniti e godere dei vantaggi assicurati dal Governo: con Biden, si trattava di sovvenzioni alle produzioni locali, con Trump l’esenzione dalle tariffe. In ogni caso, per molte produzioni, il trasferimento negli Usa comportava prima e comporterà ora un incremento di costi superiori a quelli conseguenti alle barriere tariffarie.

La scelta di una muraglia doganale protettiva rispetto a quella dei sussidi – entrambe volte a reindustrializzare l’America – avrà però la conseguenza di imporre un prezzo più alto ai consumatori americani e da questo deriveranno effetti a cascata. Vi sarà una forte spinta inflazionistica. Si ridurranno i profitti delle grandi aziende americane che, nella maggior parte dei casi, producono parti o interi prodotti in mercati a basso costo. Si avvierà un ciclo di investimenti interni (Usa) non competitivi nel mercato esterno (extra-Usa) e dunque incapaci di innescare effetti scala da mercato mondiale.

Vi sarà una forte reazione sociale di chi vedrà salire subito i prezzi dei prodotti e dovrà attendere anni – in molti casi inutilmente – prima di vedere crescere la produzione interna e il proprio reddito da lavoro. Vi sarà una probabile contrazione di PIL e si avrà una minore attrattività di Wall Street come centro di raccolta del risparmio mondiale. Sarà più difficile rifinanziare l’enorme debito pubblico Usa che ha raggiunto 36.000 miliardi di dollari e la Fed sarà obbligata a mantenere alti i tassi, sia per l’inflazione, sia per convincere gli investitori a sottoscrivere debito americano.

La via per riportare le produzioni in America sarebbe quella che l’economia classica considerava l’unica possibile, cioè svalutare il dollaro del 30%, il che equivarrebbe a mettere dazi del 30% su tutte le merci importate e rendere meno costose, di una uguale misura, le esportazioni. Non sarebbe però un’operazione facile per due motivi. Il primo è che il dollaro è liberamente convertibile e dunque il cambio lo fa il mercato. Per svalutare una moneta che alimenta il mercato finanziario in misura enormemente maggiore delle transazioni commerciali, bisogna rendere meno interessante investire in dollari. Il secondo motivo è che abbassare il tasso di interesse a valori sostanzialmente più bassi di quelli europei sarebbe la misura più efficace, ma, come già osservato, cozza con la necessità di attrarre risparmio europeo e delle economie del Pacifico, per finanziare il debito pubblico americano e dei fondi di investimento.

È dunque difficile pensare di svalutare il dollaro attraverso interventi decisi dalla Fed, mentre resta possibile che la svalutazione possa avvenire per una fuga di capitali di chi non considera più l’America un posto sicuro per investire o conservare le proprie fortune. Fenomeno che già mostra di aver preso avvio, perché l’America di Trump non è più il garante della sicurezza delle economie liberali e dichiara apertamente di esser pronta a considerare amici o nemici solo secondo convenienze. Il fenomeno Trump non è niente altro che la conseguenza di un impero che si finanzia grazie ai risparmi delle sue province per alimentare la sua forza militare e le sue imprese tecnologiche, che hanno centri creativi nella Silicon Valley, ma fabbriche all’estero.

Ora questo modello che fa finanziare le 8 flotte che garantiscono il potere imperiale al risparmio degli amici e fa arricchire pochi ipermiliardari, mentre il tasso di povertà è al 18%, si sta rompendo e non saranno i dazi a salvarlo.

Trump è solo uno dei tanti populisti che la storia ha sfornato, anche recentemente, in Italia, ma la differenza è che guida la più grande potenza del globo, che credevamo fosse la nostra garanzia contro i populismi degli autocrati interni ed esterni al mondo occidentale. Il fenomeno Trump non passerà, perché i problemi che lo hanno generato sono reali e non saranno i dazi a risolverli, così come non hanno risolto, semmai aggravato i nostri problemi ricette populiste come il reddito di cittadinanza e i superbonus.

L’Europa dovrà prenderne atto. (Public Policy)