IL GIUDIZIO DI ALESSANDRO STERLACCHINI, DOCENTE DI ECONOMIA ALL’UNIVPM
(Public Policy) – Roma, 25 nov – (di Leopoldo Papi) Quello
dei sussidi e degli incentivi pubblici alle imprese è un
tema ricorrente nel dibattito sulla politica economica
italiana. Lo scorso luglio, l’economista della Bocconi
Francesco Giavazzi ha proposto, in uno studio su commissione
della presidenza del Consiglio, di ridurre, se non azzerare
del tutto, ogni forma di contributo pubblico e utilizzare il
ricavato per finanziare una riduzione del cuneo fiscale
sulle aziende.
L’idea è piaciuta a Confindustria, il cui presidente,
Giorgio Squinzi, ha annunciato a fine settembre la
disponibilità a rinunciare a tutti i sussidi in cambio di
riduzioni fiscali, “perché le imprese stanno morendo di
fisco”. E tuttavia, c’è chi non è d’accordo con questa
impostazione, come Alessandro Sterlacchini, docente di
Economia applicata al dipartimento di Scienze economiche
dell’Università politecnica delle Marche (Univpm).
D. COSA PENSA DELLO “SCAMBIO” PROPOSTO DA GIAVAZZI:
AZZERARE I SUSSIDI IN CAMBIO DI SGRAVI FISCALI?
R. Non sono d’accordo. Perché gli incentivi non sono una
forma di sussidio alle imprese generico. Ogni tipologia di
incentivo ha determinate caratteristiche, che interessano la
collettività. Per il cittadino non è indifferente che le
imprese vengano sussidiate per particolari obiettivi oppure
no, come occupare giovani e donne, o per fare ricerca e
sviluppo, per mettere a norma la sicurezza degli impianti o
per operare con impianti che consumino meno e poco
inquinanti. Non è solo interesse dell’impresa, è anche un interesse
collettivo quello di sapere cosa fanno le imprese. Se invece
di dare gli incentivi tolgo 100 euro di tasse a tutti, come
dice Giavazzi, significa che a noi non interessa minimamente
cosa fanno le singole imprese con quei 100 euro che gli
facciamo risparmiare, e lasciamo mano libera alle imprese di
operare. È una visione assolutamente legittima, ma ce n’è un’altra
di economisti che pensano che senza un’incentivazione pubblica
alcune attività le imprese non le farebbero mai. Il mercato,
lasciato a se stesso, alcune attività, come quelle ricordate,
non le facilita.
D. COME FUNZIONANO I SUSSIDI?
R. Di sussidi alle imprese ne esistono tantissimi,
elencarli tutti è molto difficile. Facciamo uno sforzo. In
primo luogo possiamo fare riferimento a ciò che ci dice
l’Unione europea. Secondo le linee guida dell’Ue gli
incentivi non dovrebbero essere settoriali, favorire cioè
qualche settore a scapito di altri, perché si
falsificherebbe il gioco della concorrenza.
L’Ue ci dice però che un incentivo pubblico viene accettato
quanto più riguarda imprese di dimensioni piccole, perché
sono svantaggiate, per una serie di motivi. Un parametro
utilizzato per l’uso di questi strumenti è dunque quello
dimensionale, riferito alle piccole imprese, con meno di 50
addetti, e alle medie, fino a 250 addetti.
Un altro criterio di riferimento importante delle linee
guida Ue è che vanno avvantaggiate le imprese di aree
geografiche particolarmente depresse. È un criterio generale
che si applica a prescindere dal tipo di incentivo (ricerca
e innovazione, occupazione femminile e giovanile, risparmio
energetico o altro). La gran parte degli incentivi alle imprese
oggi dati in Italia sono sotto ‘l’ombrello’ dei fondi europei
strutturali. I soldi che hanno le Regioni sono spesso
pochissimi, quindi il grosso degli incentivi sono europei, e
sottoposti a rigidi controlli. L’idea che circola che ogni
Regione da i soldi a chi gli pare è del tutto infondata: ci
sono controlli, qualitativi e quantitativi.
I criteri sono rigidi: bisogna seguire delle procedure,
fare un bando di gara, le imprese vanno selezionate e tutto
deve essere documentato. Questo è anche uno dei motivi per
cui i fondi vengono utilizzati poco. Nel caso dei fondi
strutturali europei, si deve poi ricordare, tra gli altri
aspetti, che funzionano in cofinanziamento: per ogni 100
euro che ci da Bruxelles, il Governo o le Regioni devono
introdurre altri 100 euro.
D. COME SI VALUTA L’UTILITÀ DEGLI INCENTIVI?
R. Quando si danno incentivi, le imprese devono presentare
un progetto e fare delle promesse (occuperò tanti giovani,
tante donne, farò tanti investimenti in R&D). Un primo
controllo che va assolutamente fatto, per cui non servono
tante statistiche, è dunque quello ex-post, dopo uno o due
anni, su che cosa è stato fatto.
Ciò che spesso le Regioni non fanno, e che vanno spinte a
fare, è proprio certificare e documentare alla fine dei
progetti gli obiettivi raggiunti. È un primo livello di
informazione dovuto ai cittadini, un’esigenza di
trasparenza. Se io ho i dati, ad esempio, sui posti di
lavoro creati con questi incentivi e su quanto sono
costati, ho già informazioni utili.
Il passo successivo è capire se quei posti sono
effettivamente tanti o pochi rispetto a quei costi, e allora
si possono utilizzare metodi di analisi più raffinati, come
quello basato sulla valutazione dell’addizionalità
(finalizzato a capire se le stesse aziende, in assenza di
incentivi, avrebbero fatto lo stesso quegli investimenti;
ndr).
D. QUALI SONO GLI INTERVENTI DI SOSTEGNO SECONDO LEI
PRIORITARI?
R. Metto al primo posto le energie rinnovabili e la ricerca
e sviluppo. Quest’ultima rappresenta uno dei ritardi
principali nel nostro Paese, a prescindere dal settore.
Incentivare la ricerca e sviluppo, significa anche
incentivare l’occupazione dei nostri laureati, dei nostri
ingegneri, informatici, chimici, e in generale di figure
professionali di alto livello, di cui abbiamo estremo
bisogno.
Non solo si tagliano fondi alle università, ma le imprese
italiane investono poco in ricerca. Altro settore importante
sono le fonti rinnovabili: qui non è questione di Paese, ma
mondiale, relativa ai cambiamenti climatici, alla cui
soluzione (riduzione Co2 e gas serra) l’Italia deve dare un
contributo. (Public Policy)
LEP