di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – “Un partito per Mario Draghi? È uno scenario che molti italiani auspicherebbero ma dal punto di vista tecnico è improbabile che si realizzi”. Parola di Mauro Calise, politologo, autore di numerose pubblicazioni sui partiti personali e la democrazia del leader.
“Anzitutto – dice il professor Calise a Public Policy – perché molti esponenti politici interessati all’operazione dovrebbero rompere con i rispettivi partiti di appartenenza, a parte Renzi che non ha questo problema, andando a comporre lo schieramento a sostegno di Draghi”. Si prenda il caso di Giancarlo Giorgetti, primo tra i “draghiani” del centrodestra: “Giorgetti sta cercando di europeizzare Salvini il più possibile in vista della probabile vittoria del centrodestra alle elezioni politiche. Per costruire un movimento pro-Draghi, dovrebbe abbandonare la nave e mettersi al seguito di una operazione tutta da costruire. Onestamente, non ce lo vedo”. E poi c’è un altro problema fondamentale, dice Calise: “Un rassemblement che si richiami a Draghi deve essere direttamente governato e comandato da lui, altrimenti viene meno il presupposto stesso dell’operazione: andare a prendere voti nel pascolo degli altri partiti”.
Uno schieramento senza Draghi alla guida, sarebbe abbastanza inutile, dice Calise. Per una questione puramente aritmetica: non muoverebbe voti. “Tutti sanno che se si va al voto, con le coalizioni come sono adesso, lo scarto fra i due schieramenti è di circa 10 punti. Questo scarto potrebbe essere ridotto da un fattore nuovo, cioè da un eventuale partito di Draghi. Ma il presidente del Consiglio dovrebbe organizzare una nuova formazione. Io non sono sicuro che abbia questa intenzione, pur ipotizzando che abbia qualche dote in più di Mario Monti, ormai associato al ricordo del fallimento dell’organizzazione di Scelta civica. Da questo punto di vista, ricordo tuttavia che non è neanche l’unico ad aver fallito, pensiamo a Matteo Renzi che dopo i suoi salti mortali oggi si trova con un partito che sta a malapena tra il 2 e il 3 per cento. Non dimentichiamo dunque un fatto: un conto è il consenso, un altro conto è tenere insieme un partito, cioè avere una struttura, ramificarsi sul territorio, andare a recuperare i candidati”.
E Draghi, sottolinea Calise, è “una persona concreta, non si mette in un’avventura con il rischio di un risultato alla Monti e, soprattutto, con il rischio dello sfarinamento dei gruppi parlamentari come accaduto all’ex presidente del Consiglio. Il problema non sarebbe neanche prendere l’8 per cento, perché come risultato basterebbe e avanzerebbe. Solo che in quel caso Draghi si trasformerebbe, da premier di una coalizione di tutti in pratica – tutti tranne Meloni – a premier di una coalizione risicata che ha giusto il vantaggio di essere stata messa insieme da lui, ancorché all’ultimo minuto. Già adesso ce la sta mettendo tutta, sta dando dimostrazione di grande temperamento ma, pur avendo una notevole maggioranza in Parlamento, già procede a colpi di voti di fiducia e vari tira e molla con i partiti, prevalentemente con i 5 stelle. Sarebbe un’operazione rischiosa e il guadagno nella migliore delle ipotesi finirebbe con l’essere magro. Avrebbe per un pelo la maggioranza parlamentare e in più avrebbe perso quell’aura super partes che è molto importante”.
Fin qui, dice Calise a Public Policy, “Draghi ha fatto due regali molto importanti al Paese. Primo, ha consolidato l’operazione del Pnrr, avviata da Giuseppe Conte. L’altra operazione riguarda Salvini. Lo sta riconducendo nell’alveo europeista. Il cambiamento di Salvini rispetto a due anni fa è enorme e penso persino irreversibile. Salvini ha smesso di flirtare con l’idea di far saltare l’Europa. Magari vuole un’Unione Europea diversa, e questo è legittimo. Mantiene una posizione critica, anche molto critica talvolta, ma non va tralasciata l’evoluzione, che si è verificata grazie a Draghi, anche se forse il leader leghista non aveva altre prospettive. Un quadro del genere, nettamente favorevole al centrodestra, appare molto meno traumatico rispetto a un anno fa. Il che rende plausibile l’altro scenario, con Draghi al Quirinale e un centrodestra vincente guidato da un Salvini più giorgettiano, o zaiano che dir si voglia, certamente meno trumpiano”.
“Due anni fa Salvini voleva uscire dall’euro, oggi no. Draghi al Quirinale avrebbe sicuramente modo di rafforzare il processo di europeizzazione di Salvini, al quale pure i problemi non mancano. Uno su tutti: Giorgia Meloni. Il duello Salvini-Meloni sarà la partita della nuova legislatura, a meno che Enrico Letta non ritrovi un po’ di carisma e si inventi un predellino anche lui. Fin qui, la leader di Fratelli d’Italia non ne ha sbagliata una. Sembra autentica nella personalità e nelle cose che pensa. Poi cambia opinione anche lei, ma riesce a essere fedele a se stessa. Darà fastidio, soprattutto alla Lega”. Con un Salvini europeizzato, insomma, non ci sarebbe bisogno di un partito-salvatore della patria. (Public Policy)
@davidallegranti