di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – Nelle ultime settimane è ripresa la discussione sul disegno di legge sul fine vita che dovrebbe, con notevole e colpevole ritardo, dare attuazione alla sentenza 242/2019 (caso Dj Fabo/Cappato), con cui la Corte Costituzionale non solo introdusse una scriminante per il reato di aiuto al suicidio, prestato nei confronti di “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”, ma rese anche esigibile, a determinate condizioni, il diritto al suicidio assistito “da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Questi principi necessitano da quasi 6 anni di una disciplina attuativa che ne consenta l’applicazione uniforme sull’intero territorio nazionale. Invece si è proceduto in ordine sparso, ogni regione ha fatto a suo modo, e in molti casi non ha fatto niente, quindi le richieste inevase dei pazienti sono decise nei tribunali.
Il testo di legge a cui lavora la maggioranza, a guardare le bozze non ufficiali che stanno circolando, sembrerebbe esplicitamente volto a circoscrivere in modo restrittivo l’applicabilità dei principi stabiliti dalla Consulta, sia prevedendo una condizione aggiuntiva per l’accesso al suicidio assistito – il richiedente deve essere inserito in un programma di cure palliative, la cui appropriatezza clinica non può essere però presunta per la generalità dei pazienti – sia stabilendo che l’esame delle richieste sia assegnato a un unico comitato etico-politico nazionale di nomina governativa, cosa che ne pregiudica di per sé la terzietà e reputazione di indipendenza.
Se le indiscrezioni fossero confermate, a questo limite potrebbe aggiungersene uno ancora più macroscopico, quello di intervenire in un quadro normativo già ulteriormente evolutosi proprio in base alle più recenti pronunce della Consulta. Per ricostruire la questione, è quindi il caso di ripartire dall’inizio.
Come si è già rilevato in un precedente articolo, la Corte con la sentenza 242/2019 non aveva ritenuto il diritto all’eutanasia tout court derivabile dalle norme della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, anzi si era tenuta, con una scelta tecnica molto discussa, a prudente distanza di sicurezza dal problema.
Già nell’ordinanza n. 207/2018, con cui aveva anticipato la fondatezza del ricorso sul caso Dj Fabo/Cappato e aveva rinviato l’esame della questione di legittimità costituzionale di un anno per consentire al Parlamento di intervenire per rimuovere dall’articolo 580 del codice penale le disposizioni contrastanti coi precetti costituzionali, si leggeva: “Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)”.
Ciò che dunque la Corte decise un anno dopo, di fronte alla perdurante inerzia del Parlamento, fu che era irragionevole che i pazienti, cui la legge 219/2017 sul consenso informato e le direttive anticipate di trattamento riconosce il diritto di rifiutare un trattamento di sostegno vitale, anche se necessario alla sopravvivenza, non potessero esercitare il medesimo diritto, mediante modalità diverse da quella, prevista dall’articolo 2, comma 2 della legge 219/2017, della sedazione terminale connessa alla interruzione della terapia di sostegno vitale.
Che questa fosse la logica della Corte è chiarissimo da questo passaggio: “Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Questo spiega perché la sentenza del 2019 sia stata ritenuta insufficiente e equivoca dai sostenitori del diritto all’eutanasia: infatti sembra escludere tutti i malati terminali o in condizioni comunque irreversibili e ingravescenti (come moltissimi pazienti oncologici o affetti da malattia neurodegenerative) la cui sopravvivenza attuale non dipenda da trattamenti di sostegno vitale. Inoltre, lasciando indeterminata la nozione del “sostegno vitale”, la sentenza del 2019 favorisce interpretazioni restrittive, in base alle quali ad esempio potrebbero considerarsi di “sostegno vitale” solo interventi interamente sostitutivi di funzioni organiche, realizzati con strumentazioni ad alto contenuto tecnologico.
Anche per questa ragione, la Corte Costituzionale in una sentenza dello scorso anno (n. 135/2024) è intervenuta salomonicamente con un colpo al cerchio e l’altro alla botte.
Da una parte ha dato torto al GIP di Firenze che chiedeva di fatto alla Consulta di cancellare la dipendenza da un sostegno vitale come condizione d’accesso al suicidio assistito, ritenendola discriminatoria; gli ha dato torto, s’intende, non perché prevederlo in una legge sia in sé incostituzionale, ma perché questa estensione del diritto dei pazienti non può considerarsi operabile da parte della Corte Costituzionale, sulla base dell’attuale quadro giuridico in materia.
Dall’altra parte ha chiarito che per “sostegno vitale” si deve considerare qualunque trattamento, indipendentemente dal grado di complessità tecnica, anche non effettuato da personale sanitario, ma per esempio da familiari e caregivers formati, la cui “omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”, quali ad esempio “l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali”. Da questo punto di vista, si può concludere che tutti i pazienti in condizioni di irreversibilità dipendano da trattamenti sanitari di sostegno vitale, che siano medici, infermieristici, farmacologici o di altro tipo.
In una situazione in evoluzione, ben prima che il testo predisposto dal Governo possa essere approvato dal Parlamento la Corte Costituzionale dovrà decidere il prossimo 8 luglio su una questione di costituzionalità relativa non già all’articolo 580 (aiuto al suicidio), ma 579 (omicidio del consenziente) del codice penale, sollevata da Tribunale civile di Firenze.
Il nodo è questo: se chi ha diritto all’aiuto al suicidio non è materialmente in grado “per impossibilità fisica e per l’assenza di strumentazione idonea” di procedere in autonomia all’assunzione del farmaco letale, perché a chi provveda materialmente a somministrarlo non deve essere riconosciuta la stessa scriminante accordata a chi fornisce il farmaco e agevola il proposito suicidario?
Se la Corte desse, come è più che possibile, ragione al giudice remittente, il nostro ordinamento giuridico aprirebbe la porta anche all’eutanasia attiva su una platea di potenziali aventi diritto significativamente ampliata proprio dall’ampliamento del concetto di trattamento di sostegno vitale. Il che renderebbe il testo di mediazione del Governo, già in sé suscettibile di sanzioni costituzionali, del tutto anacronistico prima ancora che arbitrariamente restrittivo di un diritto ormai riconosciuto come tale.
Sullo sfondo di questa discussione, da cui emergono i consueti e scoperti negoziati tra autorità politiche e ecclesiastiche sui temi eticamente sensibili, si staglia la questione fondamentale, a cui per una via traversa potrebbe giungere, come detto, la stessa Consulta. In una situazione in cui la “morte naturale” è nella stragrande maggioranza dei casi un simulacro retorico e in cui la cura dei morenti comporta in ogni caso una attività di sistematica surrogazione delle principali funzioni vitali e le stesse condizioni di vita dei pazienti hanno un altissimo grado di “innaturalità”, è da considerarsi sempre più fittizia la distinzione tra eutanasia passiva e eutanasia attiva, cioè tra la morte volontaria omissivamente consentita e quella attivamente provocata nell’interesse di un paziente.
Non c’è ormai nessuna vera differenza bioetica e biogiuridica tra la morte di Piero Welby, un caso classico di eutanasia passiva, dove la morte consegue alla cessazione di un trattamento di ventilazione, e quella della paziente fiorentina completamente paralizzata dal collo in giù, il cui caso sarà deciso alla Consulta il prossimo 8 luglio, che chiede, nell’impossibilità di auto-somministrazione del farmaco letale, che qualcuno provveda in sua vece.
E c’è più “attivismo” sanitario nel comportamento formalmente omissivo del medico che deve distaccare un paziente intubato dalla macchina della ventilazione, dopo averlo sottoposto a una sedazione profonda (come è avvenuto per Welby), che nella semplice somministrazione di un farmaco letale (come avverrebbe per la paziente toscana).
Visto che in entrambi i casi il fine che guida gli atti sanitari, concepiti come mezzi in vista di quel fine, è la morte volontaria del paziente, la distinzione tra eutanasia attiva e passiva più che della chiarezza giuridica fa il gioco di una opacità e ipocrisia politica, che su questi temi sarebbe meglio abbandonare.
@carmelopalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato