di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Forse per Renzi questo non è più il migliore dei Parlamenti possibili. Ma le ragioni non sono da cercare nel Palazzo, ma fuori. E sono molto profonde, quasi storiche. E rispondono alla parola “cambiamento”.
All’ormai fisiologico dissenso interno al Pd, dopo l’ennesima tegola giudiziaria che cade su Alfano, si è aggiunta una fronda di senatori di Ncd (tra cui Schifani, Formigoni e Sacconi). La prossima settimana, con il voto sulla riforma del bilancio, per il quale a Palazzo Madama serve la maggioranza assoluta di 161 voti, ci sarà la prova della verità.
Ora che elezioni comunali, i sondaggi che prevedono la vittoria dei 5 stelle al ballottaggio e l’asse trasversale del “tutti contro Renzi” mettono il premier nell’angolo, sono tutti pronti a “scendere dal carro”. La fiducia di consumatori e imprese che cala e l’economia che non riparte, poi, aggrava il problema.
Però, il problema non è di oggi. Spesso, infatti, dimentichiamo che sono 20 anni che cresciamo meno degli altri e anche che negli ultimi due di #italiaconsegnopiù, la media del Pil italiano è stata la metà di quella europea. Soprattutto, che al ritmo attuale torneremo ai livelli di ricchezza pre-crisi solo nel 2025.
Allora, la preoccupazione non è avere qualche soldo più nel portafoglio, ma sapere che per decenni non c’è e non ci sarà prospettiva alcuna di carriera, di crescita, di migliorare la propria posizione.
È la disillusione che nulla cambi che rende il consenso sempre meno stabile e più facile alla disgregazione. Dopo 7 anni di recessione e 10 punti di Pil persi non sono gli 80 euro, l’abolizione della tassa sulla prima casa o il taglio di qualche punto di Irpef a poter cambiare l’umore del Paese.
Come si è visto, non cambia nulla nemmeno tra il “buon governo” di Fassino e “il disastro Capitale” di Marino. Se prima della crisi, infatti, Berlusconi poteva vincere promettendo l’abolizione dell’Imu e gli con gli “80 euro” Renzi ha alimentato l’illusione del cambiamento, la domanda politica è oggi molto più esigente.
E non saranno le promesse, come gli aiuti paternalistici, a riaccenderla. Il consenso si acquisisce solo presentando radicali cambi di scenario. Basta ricordare l’entusiasmo per l’arrivo di Monti, breve ma intenso, il 25% ottenuto da Grillo alle Politiche del 2013 o lo stesso 40,8% del Pd delle Europee del 2014.
Con lo slogan “Change” Obama ha vinto nel 2008 dopo 8 anni di amministrazione Bush, un passaggio a suo modo prodromo del fenomeno Trump. Come la Lega lo fu dei 5 stelle, dei Le Pen, degli Orban o di Afd. E in Italia, complice la crisi economica, si acuisce una tendenza globale.
Dopo “Brexit” molti hanno espresso critiche sulla democrazia in mano al “popolo bue”. Eppure, qui non si tratta di ampliare il demo-sapere parallelamente alla demo-crazia (Sartori), ma di rendersi semplicemente conto che gli elettori hanno aspettative diverse da quelle che la “vecchia” (perdonatemi) politica gli può offrire.
Machiavelli denunciava che quando “il popolo non ebbi fede in alcuno, sendo stato ingannato per lo addietro, si viene alla rovina di necessità”. Ora, l’inganno c’è stato, la fede non c’è più, per la rovina ci stiamo lavorando. (Public Policy)
@GingerRosh