di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Anche ammesso, e non concesso, che la permanenza di Mattarella al Quirinale possa rafforzare la presenza di Draghi a Palazzo Chigi, il primo Cdm post (ri)elezione del presidente ha mostrato che la maggioranza che lo sostiene è decisamente più instabile di prima. Da lunedì è infatti cominciato un viaggio che porta fino alle urne e che non fa più fermate, tanto che si è ufficialmente aperta la gara delle rivendicazioni (un nuovo scostamento di bilancio, cancellare la riforma del catasto, interventi immediati sulla scuola, fondi aggiuntivi contro il caro energia). Per cui bisogna chiedersi cosa ci aspetta nei prossimi mesi, perché tanti sono i nodi sono ancora sul tavolo. Irrisolti. La maggior parte dei quali deve passare per un Parlamento certamente poco coeso. E anzi, a mettere in fila le sfide, da due obiettivi del Pnrr che bisogna raggiungere ogni settimana, a riforme politicamente delicate e costose, è evidente quanti siano i rischi.
Ovviamente, c’è da gestire una pandemia da cui non siamo ancora usciti, con lo spettro di nuove e più aggressive varianti che minano i comportamenti e pesano su un’economia che, dopo il rimbalzo dello scorso anno, in questo 2022 sta dando segnali di rallentamento. Per adesso, tutte le previsioni vengono progressivamente riviste al ribasso. Ci sono purtroppo fattori esogeni (energia, inflazione, scarsità di materie prime, tensioni geopolitiche) con impatti devastanti, come dimostra il caso Saipem, che potrebbe essere il primo di una lunga serie. I bandi infrastrutturali costruiti prima dei rincari energetici sono valutati dal 15% al 20% sottocosto. L’industria dell’auto e quella delle tlc potrebbero essere le prossime vittime. A questo dobbiamo aggiungere ataviche ragioni endogene, antichi problemi strutturali, che ci portiamo avanti da qualche decennio (burocrazia, concorrenza, giustizia, fisco, etc) che zavorrano il rilancio economico.
Purtroppo, dopo un avvio energico, l’azione di Governo ha cominciato a rallentare dopo l’estate. Se non c’è due senza tre, a guardare a quest’anno pre-elettorale è difficile aspettarsi un cambio di marcia visto che in situazioni analoghe già Monti nel 2012, dopo una partenza sprint, come Gentiloni nel 2017, non sono annoverate come annate rivoluzionarie. Ad aggravare la situazione c’è ora la modalità con cui si è arrivati al bis di Mattarella. Da un lato l’autocandidatura di Draghi ha lasciato trasparire la scomodità con cui l’ex Bce vive la sua posizione a Palazzo Chigi, mediatore tra partiti e leader litigiosi. Dall’altro, un Parlamento che è deflagrato, dove le coalizioni si sono spaccate, come anche i partiti al loro interno, con i leader che non controllano i peones. Per cui, se pure è vero che ormai il potere legislativo non legifera più (meno del 2% delle leggi sono di iniziativa parlamentare), resta ancora titolare di un diffuso potere di veto.
Se a febbraio scorso era pronosticabile che l’azione riformatrice dell’Esecutivo avrebbe trovato resistenze, a marzo che la pax draghiana era già traballante e a settembre che riforme politicamente costose difficilmente sarebbe state approvate, oggi c’è un’altra evidenza. Tutte le principali decisioni dovranno passare al vaglio di un Parlamento ancora più balcanizzato di prima che potrebbe mettersi di traverso. Camera e Senato, per esempio, avranno l’ultima parola su 59 delle 102 riforme previste dal Pnrr e concordate con Bruxelles (due a settimana). Poi c’è la definizione della riforma fiscale (tema politicamente radioattivo). Il codice degli appalti e la concorrenza da approvare entro giugno. Il nuovo regime pensionistico entro fine anno. Poi la spending review, la riforma dell’istruzione primaria e secondaria, quella della giustizia (sia civile che penale). Solo per rimanere all’essenziale ed non menzionando questioni politiche come il sistema elettorale. Solo per fare un esempio, sul caro bollette tutti i partiti hanno già chiesto un nuovo scostamento di bilancio, con il Mef che per ora si oppone. E abbiamo appena iniziato.
I mesi da qui alla fine della legislatura possono insomma diventare una lunga, logorante e paralizzante campagna elettorale. Ovviamente Draghi proverà a rilanciare l’azione di Governo, a partire dalla delicata esecuzione del Pnrr, passando per la revisione del Patto di Stabilità e l’europeizzazione della questione energia. L’idea che circola a Palazzo Chigi è quella di spingere, trovando accordi con le parti dei gruppi parlamentari più “governisti”; un po’ come successe nella formazione della squadra dei ministri. Ai tempi un parte di Forza Italia (Tajani), della Lega (quella antieuro) e dei 5 stelle (Conte su tutti) non gradirono. Oggi bisogna aggiungere l’ostilità di parte del Pd (con Franceschini, per esempio, non c’è alcun feeling), lo scoramento di Giorgetti. E un Parlamento che si sente intoccabile, dopo la prova di sopravvivenza, e che potrebbe fare resistenza contro ogni provvedimento come fosse un Vietnam. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)