I suicidi in carcere e la politica: intervista a Emilio Santoro

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Ma perché tanti suicidi in carcere? E perché la politica non se ne occupa? Ne parliamo con Emilio Santoro, filosofo del diritto, professore all’Università di Firenze.

D. Professore, perché tanti suicidi? 

R. Spiegare l’altissimo numero dei suicidi in carcere non è facile, già di per sé spiegare l’andamento dei suicidi in generale è complesso e controverso. Intuitivamente ogni suicidio ha una sua storia particolare connessa alla personalità della persona che si suicida. Il primo che ha ipotizzato che si potesse studiare l’andamento dei suicidi come un fatto sociale fu Durkheim nel suo famoso studio di fine Ottocento. Il sociologo francese propose 4 tipogie di suicidio, tra le quali particolare rilevanza per capire il suicidio in carcere ha il suicidio anomico, cioè il suicidio dovuto al disorientamento di chi si trova a vivere in una società senza ordine che mette in discussione i principi considerati scontati. L’anomia è infatti la situazione tipica delle carceri italiane che annichiliscono e infantilizzano la personalità dei detenuti, privi di diritti, costretti a compilare ‘domandine’ anche per far fronte ai bisogni più banali e per compiere le attività più innocue.

D. Come ci si può rendere conto dell’anomia di cui parla?

R. Per rendersi conto dell’anomia che regna nelle carceri italiane basta riflettere sul fatto che sono in corso numerosi processi per tortura (in alcuni c’è già stata la condanna in primo grado) contro agenti di polizia penitenziaria che dovrebbero garantire la qualità della vita detentiva e i diritti dei detenuti. A questo si può aggiungere che nel 1999 lo Stato italiano ha deciso di sottrarre l’assistenza sanitaria all’amministrazione penitenziaria per garantire il pieno diritto alla salute dei detenuti senza che i medici fossero condizionati dai ‘carcerieri’ e soprattutto per evitare che i detenuti sospettassero questo condizionamento e entrassero in ansia per la preoccupazione di non essere curati.

Chiunque ha vissuto l’esperienza di una lunga lista di attesa sa che, senza essere ipocondriaci, niente da stress come il pensiero di aver una malattia che nessuno sta curando. Sono passati ventitré anni e i detenuti non possano ancora considerare il loro diritto alla salute in mani sicure. Il fatto che in molti casi di tortura i medici che prestano servizio in carcere sono stati denunciati, e a volte condannati in primo grado, per non aver fatto il referto delle conseguenze delle torture e non averle denunciate, sicuramente giustifica un elevatissimo stress dei detenuti che da un lato si sentono in balia più assoluta dell’arbitrio di chi dovrebbe tutelarli e dall’altro hanno la dimostrazione che nessuno tutela la loro salute.

Anche una riforma come quella del lavoro in carcere che sicuramente contribuirebbe a dare serenità ai detenuti è sospesa da anni. Alla fine della scorsa legislatura fu approvata una riforma che in sostanza equiparava l’assunzione dei detenuti e i conseguenti diritti previdenziali a quelli dei lavoratori liberi. Una legislatura è passata e nella stragrande maggioranza dei casi le carceri non comunicano a Inps e Inail i detenuti che lavorano per loro e l’Inps (nonostante che sia stato condannato per questo numerose volte) non versa loro l’indennità di disoccupazione, la Naspi, quando vengono licenziati. Insomma sono tante le condizioni che possono spiegare il dilagare del suicidio anomico.

D. Perché la politica non se ne cura?

R. Per la politica occuparsi di carcere è praticamente impossibile senza un grande atto di civiltà di tutti i partiti che dovrebbero convenire di condividere il principio costituzionale che sancisce il dovere dello Stato di non infliggere trattamenti contrari al senso di umanità, garantire i diritti fondamentali di tutte le persone detenute e configurare una pena che mira al loro reinserimento sociale. Senza un accordo di questo tipo è impossibile per un partito proporre serie riforme del carcere lasciando agli altri lo spazio di cavalcare il risentimento sociale contro Caino.

È indicativo che l’abolizione della pena di morte in Italia come negli altri paesi è avvenuta sempre grazie a un accordo più o meno esplicito che nessun partito significativo avrebbe fatto campagna elettorale contestando la sua abolizione e chiedendone il ripristino. Dove questo accordo non c’è stato, vedi gli Usa, la pena di morte è tutt’ora in vigore. Va anche sottolineato che quello che viene chiamato il boom carcerario, cioè il forte e progressivo aumento del numero dei detenuti in tutto il mondo occidentale fa seguito alla scelta di Ronald Reagan prima e Margaret Thatcher poi di fare campagne elettorali basate su slogan come ‘duri contro il crimine’, ‘guerra alla droga’, ‘tolleranza zero’… Dato i successi elettorali di queste campagne tutti hanno fatto proprie queste tematiche a destra come ha sinistra. Paradigmatico è il caso di Lula, primo presidente brasiliano del partito dei lavoratori che fa un propagandato viaggio a New York per studiare la tolleranza, ero. La concorrenza elettorale ha provocato una spirale in cui destra e sinistra gareggiavano a proporre politiche più repressive o nel mostrare che erano più capaci di espellere gli stranieri.

D. C’è chi propone di costruire più carceri contro il sovraffollamento, è d’accordo?

R. Tutti gli studi rivelano l’esistenza di un, in qualche modo, misterioso meccanismo idraulico. La costruzione di nuovi spazi detentivi provoca in un breve lasso di tempo l’aumento delle carcerazioni e il riempimento dei nuovi spazi, che diventano in breve sovraffollati. Tutti i paesi che hanno aumentato gli spazi detentivi hanno compiuto questo percorso. Non è un caso che quando la Cedu ha condannato l’Italia per il sovraffollamento delle sue carceri (la sentenza Torreggiani) non ha indicato come metodo prioritario per risolverlo la costruzione di nuove carceri, ma la riduzione dell’uso delle pene detentive è il ricorso a misure alternative. La costruzione di nuove carceri ha senso in Italia per sostituire strutture invivibili, come Sollicciano il carcere di Firenze, o per sostituire strutture pensate per il mero accatastamento di esseri umani con strutture pensate per la responsabilizzazione dei detenuti come stanno facendo i Paesi del nord Europa. (Public Policy)

@davidallegranti