di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – La parziale bocciatura della legge quadro sull’autonomia differenziata (n. 86/2024), decretata dalla Corte costituzionale, è stata giudicata da alcuni preclusiva dell’ammissibilità del referendum che ne chiede l’abrogazione totale.
Comprensibilmente, ad essere interessati a questo esito sono, in primo luogo, gli esponenti della maggioranza – di qui le dichiarazioni di Meloni e Nordio – che vogliono trarre almeno questo vantaggio da una pronuncia severa verso il Governo. Le censure della Consulta, pur non riguardando la legge nel suo complesso, ne colpiscono alcuni aspetti qualificanti – a partire dalla possibilità di devolvere interi blocchi di materie e di escludere il Parlamento dalla determinazione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e dagli aggiustamenti tributari necessari all’attuazione delle intese – e ne neutralizzano altri con interpretazioni costituzionalmente orientate, come nel caso del riconoscimento della piena titolarità del Parlamento rispetto alla modifica dei contenuti degli accordi tra Stato e Regioni.
La questione del “superamento” del referendum è delicata e complessa anche per l’incrocio di date e di scadenze legate all’esame a cui esso dovrà essere sottoposto prima da parte della Cassazione e poi della Corte costituzionale. A iniziare sarà l’Ufficio centrale per il referendum del Palazzaccio il prossimo 26 novembre, quando presumibilmente non saranno ancora state depositate le motivazioni della sentenza annunciata il 14 novembre da un comunicato della Corte. Inoltre, tra il giudizio della Cassazione, che deve valutare la conformità della proposta referendaria alle norme di legge, e quello della Consulta, che deve valutarne l’ammissibilità costituzionale, potrebbero intervenire ulteriori modifiche legislative sollecitate dalla stessa Consulta per “colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle (Regioni) ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge”.
D’altra parte la questione dell’ammissibilità del referendum è anche indipendente dalla recente pronuncia della Corte costituzionale. Prima di essa c’era già chi sosteneva che la richiesta di referendum dovesse essere giudicata inammissibile perché abrogativa di una legge costituzionalmente necessaria (in quanto attuativa dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione) e perché, trattandosi formalmente di una legge collegata alla legge di bilancio, era coperta dalla “non referendabilità” prevista per essa dall’articolo 75 della Costituzione. Entrambe queste motivazioni sono, in realtà, discutibili.
Fino al Governo Draghi nessun Governo ha mai considerato una legge quadro pre-intese tra Stato e Regioni necessaria e neppure opportuna rispetto al processo di devoluzione previsto dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Per anni sia il Governo Gentiloni che quelli Conte I e Conte II hanno avviato i negoziati con le Regioni senza porsi alcun problema e senza che alcun giurista sollevasse soverchie questioni di legittimità. Inoltre, pur essendo, ai fini dell’esame parlamentare, una legge collegata alla legge di bilancio, quella sull’autonomia è priva di qualunque contenuto finanziario e si occupa solo della proceduralizzazione delle intese tra Stato e Regioni e dunque è difficile che si possa considerare alla stregua delle leggi tributarie e di bilancio, su cui la Costituzione vieta i referendum.
Quanto invece agli effetti della recente pronuncia della Corte, il problema dell’ammissibilità non si pone nei termini della compatibilità costituzionale del referendum, ma della sua residua sussistenza in ordine alle modifiche normative intervenute a seguito della declaratoria di incostituzionalità di alcune disposizioni della legge sull’autonomia. Da questo punto di vista c’è un procedente che spinge a considerare molto meno improbabile di quanto molti pensino che il referendum sull’autonomia si tenga la prossima primavera. Il precedente è rappresentato dal referendum sul nucleare del 2011. Cosa successe allora? Successe che proprio per evitare il referendum, successivamente al riconoscimento dell’ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale (sentenza 28/2011), il Parlamento approvò in un provvedimento l’abrogazione delle norme sottoposte a referendum relative al programma nucleare italiano, ma ne operò una sorta di aggiornamento continuando a prevedere che il nucleare rimanesse in prospettiva parte della strategia energetica nazionale.
La Cassazione, nuovamente interpellata dai promotori, ritenne con l’ordinanza del 3 giugno 2011 che il fatto stesso che la manovra normativa messa in campo dal Governo Berlusconi IV non escludesse il nucleare dai futuri programmi energetici, rendeva sussistente una richiesta referendaria che era finalizzata al bando completo dell’energia nucleare e quindi trasferì il quesito sulle nuove disposizioni approvate dal Parlamento. Su questo nuovo quesito si tenne il referendum, che riuscì a sorpresa a superare il quorum.
Mutatis mutandis, di fronte a un referendum che chiede la cancellazione totale della legge quadro sull’autonomia differenziata, cioè propone che non si proceda lungo una strada che la Costituzione rende possibile, ma tutt’altro che obbligata, e che sia cancellato l’intero impianto del testo approvato dal legislatore, sarebbe abbastanza sorprendente, in base al precedente del 2011, che una richiesta referendaria così radicale possa considerarsi assorbita da una parziale riscrittura della legge 86/2024. Ovviamente, tutte queste riflessioni non riguardano il valore o il disvalore politico di questa legge (che, come abbiamo già scritto, ha gli stessi difetti ravvisabili nella norma costituzionale approvata nel 2001 dal centro-sinistra), ma la “giocabilità” della partita referendaria, che non pare davvero pregiudicata. (Public Policy)
@CarmeloPalma
(foto cc Palazzo Chigi)