Il voto di scambio ideologico e il bonus alle famiglie “tradizionali”

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – “Basta coi bonus a pioggia e coi soldi buttati dalla finestra”, diceva a inizio di settembre rientrando dalle vacanze Giorgia Meloni, ospite di “4 di Sera”, talk politico delle reti berlusconiane. Eppure a un bonus di alto gradiente simbolico e di modesto impatto finanziario, circa 100 milioni di euro, infilato con un emendamento in uno dei tanti decreti Omnibus, il Governo ha affidato il compito di addolcire la pillola di una legge di Blancio che si annuncia tutt’altro che generosa. Questo bonus di 100 euro mensili aggiuntivi sulla tredicesima, presentato come anticipo di un beneficio previsto a regime dalla riforma fiscale, è destinato, teoricamente, ai nuclei familiari con figli, ma è praticamente ritagliato in modo tale da interessare, a parità di reddito e di carico familiare, solo i lavoratori dipendenti non incapienti, con un reddito annuo inferiore ai 28.000 euro, con almeno un figlio e “regolarmente” coniugati.

L’emendamento proposto dal Governo prevede infatti che, perché l’indennità sia corrisposta, il lavoratore deve avere “un coniuge non legalmente ed effettivamente separato e almeno un figlio, anche se nato fuori del matrimonio, riconosciuto, adottivo o affidato, che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 12, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917”. Dette condizioni implicano che coniuge e figli siano a carico del contribuente, cioè con redditi inferiori rispettivamente a 2.840,51 euro e 4.000 euro. Tutto ciò significa che se Giuseppe e Maria sono coniugati, hanno un figlio e Maria non lavora, Giuseppe percepirà i 100 euro, che percepirebbe peraltro anche nel caso in cui il figlio non fosse nato dalla sua relazione con Maria, ma con un’altra donna. Se però Giuseppe e Maria non fossero sposati e fossero entrambi genitori del figlio convivente, non percepirebbero alcun beneficio. E così pure se fossero legalmente separati. L’unica eccezione alla regola del coniugio riguarda il contribuente “per il quale sussistano…le circostanze previste dall’articolo 12, comma 1, lettera c), decimo periodo, dello testo unico delle imposte sui redditi”, cioè il contribuente genitore di un figlio “se l’altro genitore manca o non ha riconosciuto i figli naturali e il contribuente non è coniugato o, se coniugato, si è successivamente legalmente ed effettivamente separato, ovvero se vi sono figli adottivi, affidati o affiliati del solo contribuente e questi non è coniugato o, se coniugato, si è successivamente legalmente ed effettivamente separato”: il che descrive le varie casistiche della famiglie monogenitoriali.

La scelta del Governo è tutt’altro che casuale perché, se davvero fosse stata finalizzata ad aiutare le famiglie con prole, avrebbe potuto più agevolmente stabilire un innalzamento dell’assegno unico e universale per i figli a carico, senza distinzione tra contribuenti autonomi o dipendenti e senza discriminazione per gli incapienti e per i nuclei familiari in cui i partner conviventi non sono coniugati. Il Governo non l’ha fatto ed è rimasto sul binario tracciato dalla riforma fiscale perché si è rivolto a un target più allineato culturalmente e socialmente, più redditizio elettoralmente e abbastanza contenuto numericamente (la stima è di un milione di aventi diritto), così da rendere la misura quasi indolore dal punto di vista finanziario.

In realtà sono proprio i bonus in sé – non solo quelli del centrodestra – a prestarsi a un uso propagandistico, perché sostituiscono la natura generale e impersonale delle misure fiscali e sociali con una fortissima “personalizzazione” particolaristica, così da privilegiare non solo specifiche attività o categorie di cittadini e contribuenti, ma da diffondere un messaggio consonante rivolto a un elettorato ben più ampio, anche non direttamente interessato allo specifico beneficio, ma sensibile al suo significato ideologico. Ad esempio, una delle ragioni per cui il bonus 110% è stato accettato con favore dalla stragrande maggioranza dei cittadini, pur avendo riguardato un’infima minoranza di loro e con effetti nettamente regressivi, oltre che catastrofici per il bilancio pubblico, è che riguardava la casa di abitazione, che per la generalità degli italiani – al di là di ogni razionalità economica – costituisce la prima cosa da difendere e l’ultima cosa da toccare. Allo stesso modo, per un determinato settore dell’elettorato, un beneficio fiscale limitato alle famiglie cosiddette tradizionali costituisce un balsamico risarcimento per l’affronto di una maldigerita apertura del diritto familiare a coppie di fatto e unioni civili omosessuali.

Sul sito dell’Agenzia delle entrate risultano ben 22 bonus, che possono essere detrazioni, sussidi, aliquote ridotte o sconti e esoneri fiscali, ma condividono la medesima caratteristica: di presentarsi come benefici ottriati, vale a dire concessi da un potere sovrano sollecito e benevolo verso ogni categoria di sudditi e quindi di suscitare l’idea che la domanda politica più efficiente e perfino più legittima sia quella volta a negoziare dazioni e prestazioni dirette, cioè sia proprio il voto di scambio, che si esercita come è noto anche nella forma della concessione di speciali rendite o immunità normative. La logica dei bonus fa male al bilancio pubblico, ma fa pure peggio al funzionamento della democrazia. (Public Policy)

@carmelopalma