di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Si dice che Draghi ascolta tutti, poi decide da solo. Ma allora perché nella legge di Bilancio ci sono 8 miliardi per il taglio delle tasse e 600 milioni per le modifiche parlamentari, lasciati nella piena disponibilità dei partiti? Perché su spinose questioni come pensioni e reddito di cittadinanza c’è un maquillage, ma nessuna decisione strategica? I detrattori del premier sostengono che questo sia un modo per non inimicarsi le forze politiche, per non porre ostacoli sulla strada che lo dovrebbe portare al Quirinale. Altra interpretazione, non del tutto alternativa alla precedente, è che quest’anno la manovra non sia così importante, non è la “legge più importante dello Stato”, ma solo un tassello di un quadro più ampio. Per cui è giusto delegare, lasciare spazio al Parlamento, mettendo tra l’altro le forze politiche le une di fronte alle altre.
Anche Bruxelles, che da sempre osserva con una potente lente di ingrandimento quanto viene deciso nella legge di Bilancio, quest’anno sembra non avere la stessa attenzione. Piuttosto, la preoccupazione della Commissione è che sia garantita la continuità dell’azione di Governo. Importante è la messa a terra del Pnrr, perché è quello lo strumento con cui attivare gli investimenti (che totalizzano un ammontare di gran lunga superiore a qualunque manovra finanziaria del passato), come anche il completamento delle riforme fondamentali per rinnovare il Paese (anche e soprattutto nella loro parte attuativa). Alcune novità sono state introdotte, ma vanno definite nel dettaglio. Per esempio, sul fisco si decide a primavera 2023: inutile forzare la mano adesso.
Per questo è opinione di Bruxelles, come anche di Palazzo Chigi, che questa legge di Bilancio sia solo una tappa da attraversare senza troppi scossoni alla stabilità politica, perché sono altre le partite da giocare e vincere. Così, è stata costruita per non alimentare scontri che potrebbero ripercuotersi su altri dossier. Sarebbe infatti rischioso incagliarsi adesso su interventi come il reddito di cittadinanza, su cui occorre separare la lotta alla povertà (da gestire tramite le amministrazioni territoriali) da una riforma del sistema formativo che possa accrescere le competenze professionali ancora troppo scarse tra i lavoratori. Sarebbe il Vietnam parlamentare. Come anche andare allo scontro sulle pensioni, sostanzialmente rimandato. Anche indicazioni più stringenti sulla riduzione del debito avrebbero potuto chiudere i cordoni della borsa e far crescere la tensione tra i partiti.
Il Pd ha proposto un “tavolo” per coordinare le varie anime della maggioranza sulla manovra. Questa, che sembra pretattica sul Quirinale, ha già messo le forze politiche una di fronte all’altra, tra inviti declinati, distinguo, veti. Sembra già, insomma, che la direzione delle fibrillazioni maggiori sia interna al Parlamento e non verso Palazzo Chigi. Questo Governo non è prettamente tecnico, sia perché Draghi è molto politico (come lo è stato quando era al Tesoro, in Bankitalia e alla Bce), sia perché nell’Esecutivo sono presenti ministri dei vari partiti (Di Maio, Orlando, Giorgetti) con cui dialogare direttamente. Per questo non c’è bisogno di incontri ad hoc come fu ai tempi di Monti. Scaricare verso il Parlamento è il mantra. “C’è da decidere se tagliare le tasse ai lavoratori o alle imprese? La scelta è caratterizzante… la prendano loro. Noi è meglio che ci entriamo il meno possibile”, sussurrano nell’entourage del premier. (Public Policy)
@m_pitta